Inizio una collaborazione con L’Italo-Americano di Los Angeles

Simone Schiavinato, direttore dell’Italo-Americano, storico settimanale centenario di Los Angeles, ha iniziato la pubblicazione dei miei articoli e mi ha proposto una collaborazione speciale per la quale ho in mente una rubrica sul cinema. Nel frattempo, il mio articolo “Sì e No:  i pilastri della comunicazione” , ha avuto un tale riscontro che se ne sta curando la traduzione in lingua inglese. Ringrazio tutti delle e-mail ricevute, è  un po’ un articolo boomerang, mi trovo adesso nella condizione di non riuscire a pronunciare niente più di intermedio quando mi si rivolge una domanda. Evidentemente il primo destinatario di quella presa per l’orecchio collettiva ero io. Ma meglio così, sono categoricamente convinto che metà crisi nazionale è dovuta a un sottobosco di psicologie surreali che possono sciogliersi come neve al sole solo se portate sapientemente alla luce, senza polemiche, ma ironicamente e con piglio. Nella foto, la pagina dell’articolo “Orfanotrofio Italia: mentori italiani cercansi”. Per leggerlo potete cliccare 2 volte sulla foto. Un ringraziamento al direttore Schiavinato  e un saluto a tutti,

Manuel de Teffé

Sì e No: i pilastri della comunicazione. Come abbiamo immobilizzato l’Italia senza utilizzarli.

Gli italiani non li utilizzano, ma

sono il primo motore di un’ economia, la pietra angolare di ogni decisione, la rampa di lancio di tutti i movimenti, hanno effetti domino devastanti e influenzano la vita di miliardi di esseri umani ab urbe condita. E soprattutto, sono infinitamente gratis. Sono il  e il NO:  i pilastri della comunicazione di tutti i tempi. Di ogni tempo, dall’inizio dei tempi.

Ma per gli italiani sono due indecifrabili palle al piede. Perchè noi li pronunciamo  solo dopo aver vilmente vagliato sino all’ultimo qual’è la cosa migliore da fare, quando stizzito il destino ci mette sottosopra  e ci scuote violentemente per obbligarci a una reazione: le cose iniziano a cascarci dalle tasche una dopo l’altra finchè non tonfano involontariamente sul pavimento un Sì o un NO paonazzi, e allora ci rimettiamo in moto iniziando una nuova navigazione a vista parassita.

Perché la verità è che il Sì e il No  danno il meglio di sé nello slancio,  Il Sì e il NO dell’ultimo momento fanno sempre scontare una sorta di pena, non godono dei benefici del SI e NO di primo pelo nei quali dimora un non so chè di glorioso.

Feci la loro conoscenza a New York, 11 anni fa. Ispirato dall’ambiente newyorkese, organizzavo  cene al ritmo di una ogni due settimane. Erano i primi inviti che mandavo via e-mail e le risposte che ricevevo erano solo 2: Sì o No, tertium non datur. Al 70 per cento erano dei SI. Tornato a Roma, continuai la tradizione, ma lentamente mi rendevo conto che le risposte ai miei inviti si libravano su universi paludosi. I Sì e No pieni erano un 30% delle risposte, il 70 per cento era un Maradona imbolsito che faceva finta di palleggiare in un vicolo.  Lo sa bene chi organizza  a Roma una qualsiasi cosa,  evento o dopocena che sia, fino all’ultimo momento non sa mai esattamente su chi contare.  Nel corso del tempo iniziai poi ad accorgermi che alcune risposte ritornavano più di altre, finché  non mi fu chiara una classifica che stilai in Germania in una nevosa sera d’inverno.

Ecco la mia HIT PARADE personale, si intitola:

“ANATOMIA DI UNA RISPOSTA”

Classifica semiseria delle più ricorrenti risposte italiane  a un invito.

1. HO UN MEZZO IMPEGNO

I have half a commitment. E’ un concetto intraducibile e  se ne sta in gran spolvero in cima alla hit. Non ne esiste traccia in nessuna civiltà. Sono due orecchie pelose bianche dall’interno rosaceo che escono fuori da un cilindro. Pensi  sia un coniglio ma in realtà sono solo due orecchie senza corpo.  E’ la prova del nove dell’inattendibilità di una persona.  E’ un cilindro senza speranze. Il quartier generale dei mezzi impegni si trova a Roma, così come il suo cimitero. Nel quartier generale si agitano i mezzi, al cimitero gli impegni. Essi hanno mezze lapidi, hanno avuto mezzi funerali, possono tornare in vita con  mezzo fischio e allora si ricongiungono in amplessi diabolici figliando altri mezzi impegni. Un mezzo impegno è l’ annuncio insapore di un fallimento in fieri. Chi ha dato questa risposta e arriva al tuo invito  non significa che si è lasciato alle spalle il mezzo impegno annunciato perchè quando ti ha risposto alludeva proprio alla tua festa.  Il mezzo impegno fa scopa con

2. FARO’ IL POSSIBILE

Il “mezzo impegno” e “Farò il possibile” sono il gatto e la volpe della comunicazione italiana. Essi si aggirano nella notte come dei falsi businessmen e circuiscono pinocchi. Li intercettano e li fanno vagolare all’infinito facendo intravedere loro una porta perennemente socchiusa. Talmente socchiusa chenteapre.

3.  NON TI PROMETTO NULLA

Spesso si trova in combinazione con “Provo a fare un salto”. Ma non necessariamente, essi possono anche godere vite parallele. Quando però entrano in combutta si trasformano in un mezzo impegno e diventano letali. “Non ti prometto nulla” tocca in Italia i suoi picchi massimi nel mese di Agosto, dove talvolta arriva a insidiare persino “Ho un mezzo impegno”.

4. PROVO A FARE UN SALTO

Infonde tenerezza perché evoca una speranza goffa. Occasionalmente è preceduto da un “Dai”. “Dai, provo a fare un salto.”   Chi pronuncia “Dai” però statisticamente non arriva. Io voglio molto bene a quelli che provano a fare un salto perchè ci ho provato anch’io molto spesso e li capisco. Chi prova a fare un salto di solito ci riesce, quelli che non ci riescono non sono da biasimare:  dai, ci abbiamo provato tutti.

5. CERCO DI LIBERARMI

Da una gratificazione istantanea con retrogusto allappante. E’ un fax che ti arriva da Alcatraz.  Una promessa che mette ansia. Arrivano solo nel 20 per cento dei casi portandosi dietro amici quasi sempre indesiderati.

6. TI FACCIO SAPERE

Questo mi è difficile da commentare perché mi stanno già per cascare le bracc

7. CE LA METTERO’ TUTTA

E’ una action answer. Sono coloro ai quali pensi di più nel periodo che va dal momento dell’invito al giorno della festa stessa. Col pensiero segui involontariamente le loro gesta eroiche per giungere a te.  Arrivano dal Tamigi sul quale hanno sfrecciato in motoscafo per settimane schivando le smitragliate di Maria Grazia Cucinotta.  Chi ce la mette tutta e riesce ad arrivare è inconfondibile: è il semprogno che gronda quel sorriso misuratamente compiaciuto da dietro la vetrata del balcone accennando un invisibile gesto di brindisi quando finalmente lo incroci con lo sguardo. Visto? Ce l’ho fatta. Prosit.

8.

Arrivano nel 55 per cento dei casi.

9. No

Possono non arrivare sul serio.

10.  SONO INCASINATISSIMO

Più che una risposta è una riflessione sullo stato. E’ il mezzo impegno che getta la maschera e fa un’esame di coscienza. Pericoloso cercare di capire perché sono incasinatissimi, accettarlo e basta.

MENZIONE D’ONORE

Et voilà. La classifica termina qui, ma c’è una menzione d’onore che spetta non a una risposta ma alla controdomanda per eccellenza: CHI VIENE? Sono quelli che sondano continuamente, che se potessero manderebbero  in avanscoperta qualcuno anche al ricevimento del proprio matrimonio, magari la propria moglie, per farsi dire chi c’è. E per finire, non si trova nella classifica perchè accade molto di rado, né gode della menzione d’onore perché mi provoca una certa inquietudine: IL SILENZIO. Sono coloro i quali non rispondono. Interpellati 1, 2, 3 volte, non danno risposte. Li incontri per caso in strada e domandi loro se hanno mai ricevuto quell’invito. Annuiscono con un sorriso e parlano d’altro mentre ti viene la pelle d’oca.

In Italia quando si fa un invito  è come se si rendesse dunque la vita difficile agli altri che impegnati a fare il possibile senza prometterti nulla proveranno a fare un salto cercando di liberarsi e che, comunque, ti faranno sapere  se Sì o se No, perché sebbene siano incasinatissimi o abbiano già un mezzo impegno stai sicuro che ce la metteranno tutta.

Così quando a Roma mi viene in mente di organizzare una festa e invitare qualcuno immagino sempre una versione impacciata di Houdini dentro una camicia di forza, avvolto da catene e rinchiuso in un baule sigillato in fondo al mare. L’uomo che vedo ha il conforto di un unico gingillo: un iphone sempre acceso che sfoglia con la punta del naso. Di quando in quando arriva un sms con un invito a una cena. In quel momento, senza un’ espressione particolare in viso, l’uomo inizia ad agitarsi come un ossesso .

la mia domanda è: ce la metterà tutta?

La conclusione è che in terra italica mandare inviti  è come spedire segnali morse nella nebbia: solo qualcuno li saprà interpretare. AMICI MIEI.

Per il nuovo anno vi voglio augurare tanti SI e tanti NO. Saranno la segnaletica più imponente del 2012. C’è un che di glorioso nel Sì e No di primo pelo, sono statuari, nel bene e nel male. Non abbiate paura, bene usati e velocemente possono sfracellare i Maya e rimettere in moto l’economia. Ogni economia.  Smuovono Mari e

Buon Natale.

Buon anno!

Manuel de Teffé

P.S.  Da ora in poi,  quando inviterete qualcuno, per qualsiasi cosa, potete allegare questo articolo. Tutte le scuse sono state mappate.

IN MEMORY OF MATILDA CALLAGHAN

TO TILLIE’s MOTHER AND FATHER. TO HER BROTHER AND HER SISTER.

Almost 6 years have gone by since the departure of Tillie. When Edwin Fawcett called me to give me the unexpected news I remained speechless for hours. Dying at a young age is something hard to understand for everybody. For a long time I had a wish, I have always been eager to tell Tillie’s parents and relatives how much I enjoyed getting to know Tillie. I met Tillie through producer John Toone during a music video shooting in London, he suggested her as my assistant director in loco. Tillie gave me an unforgettable support for one week: seeds of a new friendship were born. I ‘m now sending a hug to her dear parents plus a poster containing her name. Maybe you do not have it and it’s a nice memoir. The music video is entitled “Crucifying you”, a story about forgiveness, Matilda made it happen. A merry Christmas to all of you and a prayer for dearest Tillie.  Manuel de Teffé

Gli eletti salutano per primi: le vertigini di un buongiorno. Come salutarsi offline ai tempi di Faccialibro – Da una società feudale a un’economia di relazione – VII parte

Quand’ero bambino, verso i dieci anni, feci la seconda più grande scoperta della mia vita.  La cristallizzazione di quella scoperta fu accelerata in seguito alla mia prima polaroid, regalo che probabilmente acuì il portafoglio di percezioni e deduzioni accumulate da dopo l’affrancamento Lines. Tuttavia, raggiunsi la completezza di tale acquisizione in quattro tappe precise.

1. Il dubbio romano Nel corso degli anni, scendendo ogni mattina con mio padre per via dei “Pinnacchi blu” notavo da lontano che  i vari negozianti, ognuno sull’uscio del proprio negozio, chi sguardo rivolto al vuoto, chi a biascicarsi una sigaretta, chi ad aspettare Godot,  si ritraevano in bottega prima che noi varcassimo la linea di riconoscimento sensibile, ossia quei dodici  metri in cui non puoi non balbettare un saluto di convenienza quando la tua esistenza sta per speronare un’altra, perché è chiaro che gli sguardi si stanno per incrociare ed è fisicamente impossibile non entrare in relazione. Per una psicologia che ignoravo invece, a 12 metri dall’entrata in area di barista, calzolaio, vinaio e fruttivendolo, ognuno di loro rientrava in negozio come per evitare un mutuo saluto. Come per non fare accaderlo, per non essere sottoposti al peso di una risposta scontata. Avevo la sensazione che io e mio padre pestassimo per terra, a un certo punto del marciapiedi, qualche bottone invisibile che attivasse un’energia di risucchio dal retrobottega. Arrivati dal pasticcere, sempre dentro a lavorare, buongiorno-buongiorno, si prendeva una pasta allo zabaione e si tornava indietro. Stessa avanzata, stessi rientri.

Con mia madre esperta in pubbliche relazioni, mio padre attore e una geografia di vorticose comunicazioni attorno alla famiglia, iniziai a percepire che esistevano italiani che vivevano nei loro mondi e, lentamente,  che gli italiani vivevano rinchiusi in altri mondi: era la società feudale che avrei teorizzato una volta a New York. Ma mi diedi tempo, continuai ad osservare il fenomeno finché la sua ripetizione negli anni non suggellò il convincimento che quanto avveniva non fosse affatto casuale. Quel giorno avevo 10 anni ed ero deciso a esporre il dubbio a mio padre, ma venendo lui a Roma una volta ogni 12 mesi, non avevo ancora molta dimestichezza con la relazione e non dissi nulla: avrei rimandato la domanda di ben 18 anni.

2. Realizzazione inglese Tuttavia, willy nilly, sviluppai nel tempo e senza sospettarlo la dipendenza da non saluto, e quando mi ritrovai a diciannove anni in vacanza in Inghilterra a Hemel Hempstead ospite dell’allegra brigata Massey (amici d’infanzia di mia madre), mi resi tristemente conto di come la mia più grande preoccupazione esistenziale fosse schivare la slavina mattutina dei “Good morning!” e degli “How did you sleep”. Non dimenticherò mai lo stato d’animo del primo risveglio da ospite. Mi recai in cucina a fare colazione, Simon, mio coetaneo, già seduto per il breakfast, con due fiocchi di granturco incollati ai lati della bocca mi apostrofò un cisposo : “Good morning Manuel, did you sleep well?” Risposi subito “buon giorno” ma tentennai sul seguito, ragionai sul fatto di aver dormito bene, una domanda fuori dall’evoluzione delle mie risposte…“Goodness, it was freaking cold last night!” Carburai un po’ cupo. “Plus it’s Summer, but yes I slept well, I had weird dreams though, you know?…” Mi sedetti, precipitai anch’io qualche conrnflakes nel latte ma fui poco dopo assalito dalla stessa domanda in bocca al fratello minore , che all’altezza del tostapane ripetè con la stessa inflessione: “Good morning Manuel! How did you sleep?” Clonai la risposta già data variandola leggermente verso la fine per non cadere in una scontata ripetizione. Quando mi entrarono entrambi i genitori:”Good morning Manuel!” Proclamò Eleonor .”Did you sleep well?”  Rincarò la dose John con aria inquisitoria. In quel momento Il latte iniziò ad avere un sapore amaro. I cornflakes nel cucchiaio divennero pesanti. “Good morning John,  Good morning Eleonor. I slept very well thank you, it was a lovely night. A very lovely night, thank you so much. And you? How di you sleep ? “ Pensavo di aver finito di scontare una pena sconosciuta, quando a ruota, ricevetti il colpo di grazia. Catherine, la terza figlia, chioma rossa selvaggia e maglione verde fosforescente, mi accoltellò col suo personale “Good morning, how did you sleep?”, ma con un brio che mi imponeva una risposta su misura. Rapida immersione nelle marianne del mio subconsio. Raccolgo il guanto. Emersione e Numero. Per un progressivo desiderio di originalità, onde non suonare banale, la intrattenni per dieci minuti spiegando come avevo passato la notte utilizzando il tappeto di finto orso bianco come seconda coperta, di come stavo quasi per staccare le tende verdi e avvolgermi come un bruco. Risero tutti mentre io facevo finta di divertirmi: in realtà stavo sperando disperatamente che Ben , il quarto fratello, si alzasse tardi o che non si alzasse affatto.

Il giorno dopo, al mio risveglio, tesi bene le orecchie agli spostamenti di passi nella casa, smistando mentalmente i movimenti di animali domestici dallo spantofolio umano, determinato a entrare in cucina solo quando tutti i Massey fossero già a tavola a nuotare tra i cornflakes, per evitare il martirio dei buongiornoaudidiuslip, napalm sui miei timpani. Un buongiorno collettivo sarebbe stato più che sufficiente. Ero forse diventato anch’io uno dei pii negozianti di via dei Pennacchi? Provavo forse lo stesso tipo di imbarazzo?  E se accadeva ciò, quali erano gli underpinnings di una psicologia che aveva timore di un semplice buongiorno? Lo avrei scoperto in Francia solo nove anni dopo.

3. L’epifania francese Ero nuovamente in vacanza, questa volta a Paray le Monial,  in Borgogna. Una mattina mi alzo e vado a fare colazione in un café. Il posto era gremito di ragazzi, prendo un “cappuccino”, un croissant e mi siedo. Arriva una ragazzina di 15-16 anni minuta e insignificante, mi si siede di fronte. Mentre sto per dare la prima mano di burro, sorride prendendomi alla sprovvista: “Bon jour, ça va?” Mi dicono 2 trecce bionde con una dolcezza che non meritavo. I was blown away: fu come se qualcuno mi avesse segnato un rigore da un’altra galassia… Vidi in quel buongiorno il centro della via lattea, sistole e diastole, Carl lewis che sfondava i duecento, il riflesso del lupo di Gubbio negli occhi di Francesco. Mi commossi profondamente: quella ragazzina non aveva detto buongiorno, era lei stessa il mio buon giorno, era la garanzia del mio buon giorno, l’assegno circolare di una giornata che sarebbe andata in porto. Capii dunque come tutti i buongiorno romani fossero stati evirati sia del giorno che del buon. Di come l’augurio per eccellenza, per pigrizia, si fosse assentato da sé sesso. La parola si era smagnetizzata dal suo significato, aveva fatto una crociera nei Caraibi e aveva lasciato il significato a casa a fare la maglia. Un po’ come la mano che ti si struscia sulla testa ma non espelle carezze perché il pensiero sgranchisce altrove i suoi neuroni. Tornai a Roma stupito e provai quel nuovo buongiorno senza che nessuno se ne accorgesse. Cercai di riallinearlo al suo significato senza farlo partire più dalle retrovie di una mia distrazione. Ma il significato si era ormai squantizzato dal termine e un mio buongiorno poteva dire qualsiasi cosa: ci volle del tempo prima che quella parola tornasse a significare tutto.

4. La spiegazione di Rio  Fu però a Rio de Janeiro, lo stesso anno a casa di mio padre, che capii definitivamente come stavano le cose. Era mattino, mi trovavo nel mezzo della mia permanenza in Brasile, quando si iniziano a fare i conti col pensiero del ritorno ma si spera  ancora che  l’incontro della seconda settimana, coltivato bene nella terza, possa sbocciare clamorosamente nella quarta. Quell’eccitazione da sabato del villaggio si agitò nello stagno delle mie memorie facendo riaffiorare un pensiero sepolto. “Sai papà, sin da bambino mi è sempre sembrato che i negozianti di via dei Pennacchi si ritraessero al nostro passaggio, come se avessero paura, non so, di essere obbligati a salutarci. Mi sembra proprio che a Roma la gente faccia fatica a dirti buongiorno. Ma perché?” Dall’altro lato della stanza, seduto su un divano di bambù, fiotti di sole alle spalle, in epica controluce, mio padre mi guardò sorridente con un caffellatte enorme tra le mani e disse.

“Gli eletti salutano per primi”.

(Anthony Steffen)

Manuel de Teffé

P.S. QUESTO ARTICOLO E’ DEDICATO ALLA MIA AMICA ANGELIKA, CHE TORNATA DALL’AFRICA, DOPO UN ESTENUANTE LAVORO NEI CAMPI PROFUGHI KENIOTI, SI DOMANDA DEL PERCHE’ QUI SI FACCIA COSI’ FATICA A SCAMBIARSI UN SEMPLICE BUONGIORNO.

Il crepuscolo degli intrallazzi: prove generali di terza repubblica – “Da una società feudale a un’economia di relazione” – VI parte

Se la Prima Repubblica ha avuto come marchio di fabbrica la liturgia del sussurro in reazione a un ventennio autoritario, la Seconda una platealità esasperata per affrancarsi da tergiversanti fruscii, ed entrambe l’inciucio trasformista come minimo comun denominatore, la Terza Repubblica ha già battutto il gong alla Leopolda di Firenze venerdì scorso dove, in una maratona di tre giorni, un centinaio di persone di varie età ed estrazioni si sono alternate su un ” very cosy stage”, proponendo ognuna e per 5 minuti, SOLUZIONI ai problemi generati da questi due mostri. La manifestazione-evento è stata battezzata Big Bang, bing banger il sindaco di Firenze Matteo Renzi, che non maledirò con l’aggettivo giovane perché sul termine “IGIOVANI” ho già lanciato un’OPA.

Per la prima volta nella storia politica italiana e, sospetto anche mondiale, un evento poco politically correct e molto politically normal ha basato la sua strategia su un’economia di relazione avanzata e trasversale: si seguiva in streaming su una pagina web, mentre su altre due si poteva partecipare Cinguettando o commentando Faccialibro. Tutte le soluzioni proposte sono state poi riassunte in 100 punti, non dogmatici ma suscettibili a modifiche, un semplice promemoria generale messo lì su internet, che tra i pettegolezzi di Yahoo, gli  al lupo al lupo di blogger cospirazionisti e le autocondivisioni in bacheca dei pensieri a salve di Coelho, come si dice a Roma, ci stanno tutti.

Magari qualcuno ha già detto le stesse cose, magari qualcuno sta dicendo le stesse cose, magari questi punti sono la scoperta dell’acqua calda, sempliciotti, retorici e stucchevoli come gli oratori che gli hanno sparati.  Ma sfugge la novità: questi punti sono stati scritti e adesso hanno un posto, sono visibili e trasparenti, issati in alto come una bandiera bianca sul campo di battaglia. Non sono diventati un libro e non si sono ancora rinchiusi nell’opuscolo del programma di partito. Stanno lì pieni di refusi e ridondanze, ma ci stanno. E la parola scritta, messa in alto su un punto visibile, in modo ordinato e permanente, crea un certo fascino, provoca una certa esistenza. Ti osserva. E per le mirabolanti leggi della fisica quantistica, influenza l’osservato.

Ma questo sfugge ai più e, “Arte di avere ragione” di Shopenauer alla mano, si preferisce ballare il TIP TAP davanti alla storia e buttarla in caciara, sminuire e affermare: è già stato detto. Ma è stato già proposto. Si vabbè, ma lo abbiamo già sentito.

La sensazione generale  è invece che la politica sia uscita dopo 70 anni dal feudo dei professionisti della politica, che si stia facendo un picnic a piedi nudi nel parco guardandosi attorno per vedere a chi passare la palla, che dopo i tempi dell’ autorità, il regno dei sussurri e i numeri da one man show, adesso, come direbbe il mio amico Federico, senta il momento di giocare in scioltezza. Mia madre era sì indignada, perché di padre spagnolo, crocerossina volontaria durante il terremoto nel Belice, ma durante l’indignamento operava soluzioni…E tutta l’indignazione del mondo ( sparì una quantita ingente di denaro mandato in soccorso ) non le impedì di spostare quelle pietre. Come dire, il suo indignamento era direttamente proporzionale al suo intervento chirurgico in loco, alle soluzioni che metteva in campo.

Lo sbaglio clamoroso,  è invece  una certa traiettoria giornalistica a commento dei fatti di questi anni, che ultimamente sta commettendo la stessa svista. Per un’aberrante concezione delle regole di mercato, non si commenta più il fatto in sé stesso e le sue conseguenze, ma la percentuale di consensi di chi ha fatto avvenire il fatto. Si è spostato l’occhio di bue dalla guerra in Irak al consenso interno di Blair e Bush, dalle conseguenze degli errori del primo ministro al consenso del primo ministro che cresce o cala, dall’uccisione di Gheddafi ai consensi che ne trarrà Obama sull’elettorato americano in preparazione alla seconda candidatura presidenziale; sintetizzando: dallo studio degli effetti sulla società di uno scandalo, misfatto o atto eroico, si è passati all’analisi dell’effetto che esso genererà sull’opinione pubblica nei confronti del suo protagonista …….Non è diabolico? Come dire: LA MISURAZIONE DEL CONSENSO ALTRUI HA SOSTITUITO LA TRAIETTORIA DELLA STORIOGRAFIA.

Ergo: dal Big Bang della Leopolda quanti consensi avrà Renzi? Proposta:  E se invece impiegassimo il tempo che utilizziamo come detrattori o incensatori dei politici di turno per mettere invece in campo una strategia di soluzioni e di confronto delle soluzioni? Se ogni giornale dedicasse una pagina permanente di soluzioni per l’Italia? Una pagina che stesse lì, sempre presente, perchè ormai i problemi sono veramente troppi e non ce li ricordiamo più?  ITALIAN SOLUTIONS FOR DUMMIES? Non solo denunce ma soluzioni pragmatiche. Una Get Things Done cartacea.

Hai 5 minuti, elenca cosa non ti va e abbozza una soluzione, ma  levati perfavore il cappio dell’originalità a tutti i costi.

Ecco i miei punti in ordine sparso, banali e insulsi, non si arrogano la missione di salvare la patria, ma è ciò che mi viene in mente adesso.

1) Si spalanca una srl con 500 euro, via il dazio ai notai. 2) Treno Roma-Milano seconda classe 45 euro invece che i surreali 90 iuri 3) La panca di ferro bianco alle fermate d’autobus a Roma è una beffa, esula dall’anatomia terrestre: allunghiamola e rendiamola in grado di far sedere la gente. Lo so, è un punto idiota, ma provate ad andare a Roma a sedervi al freddo su 10 centimetri e ditemi se anche questo non denuncia assenza di relazione tra il cittadino e il gestore della cittadinanza 4) Ridimensionamento del business delle multe alle macchine: non è possibile che a 30 secondi da un’infrazione il tuo tergicristallo partorisca il foglio della tua punizione.  5) Il bagno alle stazioni costa un euro, chi avrebbe mai pagato lire 2000 per …

Come siamo arrivati a tutto ciò? Iniziamo a dare soluzioni a una nazione immobilizzata e mettiamole bene in vista, scambiamocele velocemente come le figurine, di modo che la soluzione migliore prenda il posto, a un certo punto, di quella meno buona. What’s your take?

In scioltezza.

Manuel de Teffé

“IGIOVANI” : l’epitaffio semantico che ha relegato in una terra di nessuno la metà degli italiani. “Da una società feudale a un’economia di relazione.” – V parte.

I giovani hanno ragione. Una politica per i giovani. La rabbia dei giovani. Sei giovane. Un cappuccino al giovane. Il giovane scrittore. Il giovane imprenditore. Il giovane regista. La giovane mamma. Le giovani coppie. Le giovani famiglie. Il giovane prete. Jovanotti. E’ giovane. E’ troppo giovane. E’ ancora giovane. Sei ancora troppo giovane. Come sei giovane. Voi giovani. Noi giovani in fuga dalla politica. Un vescovo vicino ai giovani. La politica dalla parte dei giovani. Le politiche giovanili. La pastorale giovanile. Noi giovani siamo una risorsa. Noi giovani senza futuro. Noi giovani e la protesta globale. La crisi la paghiamo noi giovani. Il ruolo dei giovani. Noi ascoltiamo i giovani. Diamo voce ai giovani. Spazio ai giovani. I giovani di una volta. I giovani di talento. Noi giovani siamo inca. Ma se gli Inca si sono estinti è perché erano troppo indignados?  I giovani. I giovani. I giovani. IGIOVANI.

In Italia, la parola IGIOVANI è divenuto l’epitaffio semantico di una realtà prorompente: la giovinezza. Reiterata sino all’inverosimile,  IGIOVANI ha assunto nel nostro paese la forma di lager esistenziale, una zona franca che appena pronunciata relega automaticamente milioni di italiani in un limbo concettuale dal quale nessuno sa più come e quando uscirne. Se le parole avessero stoffa, la consunzione di IGIOVANI non permetterebbe neanche di vedere le trame originali del tessuto che la compone. Mentre le trame originali della gioventù sono: audacia, sorrisi, forza, velocità, freschezza, testacoda, ma sopratutto lampi nella notte e folate pazze. Una potenza di fuoco inaudita finita in salamoia semantica.

Qualche decennio dopo la seconda guerra mondiale, quando l’Italia si è riorganizzata e ha alzato la testa, si è anche richiusa in sé stessa rifeudalizzandosi come nessun altro paese al mondo: i nostri uomini e donne migliori ( i giovani ) si sarebbero trasformati molto lentamente e senza saperlo ne IGIOVANI, diventando invisibili. La luce si curva sulla parola vuota, non la illumina, e il termine diventa mantello che da invisibilità alla direzione della pronuncia.  Perché IGIOVANI vivono negli interstizi di una società feudale  in un ciclo continuo di moonwalking tra casa di mamma e ponte levatoio del castello sociale. Essi cercano in tutti i modi di entrare in società e, non riuscendoci, emigrano, si indignano, condividono su faccialibro.  IGIOVANI, non devono essere però confusi con NOIGIOVANI, c’è una differenza come inbound/outbound.

Quando IGIOVANI torneranno ad essere esseri umani, si potrà nuovamente utilizzare questo termine, per ora proporrei un digiuno terminologico su scala nazionale a tempo indeterminato. Che nessuno pronunci questa parola. Che nessuno si appaghi condividendo in bacheca. La ragazza che intervistata al telegiornale apre il suo discorso con ” IGIOVANI”,  si sta mandando in quel momento una maledizione,  un’automacumba carpiata, ci ipnotizza e diventa invisibile come il percorso di un tergicristalli dopo 10 ore di viaggio.

“NOIGIOVANI…” E scompare il portavoce ventottenne di un corteo di 10.000 coetanei manifestanti a Piazza Cavour per una società migliore. “IGIOVANI e il mondo del lavoro”  E l’anchorman  RAI occulta 12 milioni di italiani in un colpo. La luce, ripeto, si curva sulla parola vuota.

Neanche Houdini è riuscito in tanto: provate questo esperimento. Se pronunciate questa parola avete due possibilità. Se avete meno di 50 anni scomparirete: NOIGIOVANI. Cosa vedete?  Nulla? Ne avete da 18 a 49.  Se invece avete più di 50 anni farete scomparire gli altri. Se dite “Sei giovane” avrete eliminato il ragazzo di talento che spera di lavorare con voi, che spera che voi gli facciate da mentore. Non ci vuole un master in transemantica con indirizzo in criminologia per capire come la pronuncia cieca e continua di  un termine fa scomparire l’oggetto del termine stesso. Provate a dire ti amo a salve. Provate ad accarezzare un figlio senza intenzione. Provate a tuffarvi senza acqua. A battere il la per tre ore, senza fermarvi, sulla tastiera di un pianoforte a coda nella hall di uno hotel  a cinque stelle. Dopo 180 minuti avrete fatto scomparire sia il la che la musica stessa. Il la ha cancellato la musica.  La ha nascosta.

In Italia, i ragazzi, sotto il fardello ipertestuale de IGIOVANI sono rimandati costantemente al nulla vertiginoso, non sanno esattamente più chi sono, sanno solo che non sono vecchi, e in quanto avulsi dai giochi dei vecchi abdicano semanticamente al loro ruolo di uomini e donne e diventano IGIOVANI, come Bruce Wayne è divenuto Batman. Come Michael Jackson è divenuto Jacko. Ma almeno Wayne aveva un Jocker e Peter Pan un Uncino. I GIOVANI hanno IGIOVANI.

Mentre invece la verità universale è che: un ragazzo dopo i 18 anni è un uomo giovane. A 30 un uomo giovane è un uomo: di lì, si matura progressivamente. A 18 anni una ragazza è una donna giovane. A 28 è una donna: di lì, matura progressivamente.

Mai un termine è stato così a buon mercato. E allora gli italiani dovrebbero lanciare un’OPA su IGIOVANI, la più grande OPA del dopoguerra, la più importante, prendere possesso di questa parola non pronunciandola più e metterle nel CDA  una bambina che corre sorridente, un mascalzone con con uno splendido sorriso a quattro denti, lampi nella notte e folate pazze.

Nel frattempo mia figlia l’ho fatta nascere in Germania dove non esistono IGIOVANI, come non esistono né in Gran Bretagna, né in Francia, né in Spagna.

Lanciamo l’OPA? Le azioni adesso non costano nulla e sarebbe un’ottimo affare. Per tutti. Lanciamo l’OPA prima che mia figlia si svegli. Anzi, papà l’ha già lanciata. L’ha già lanciata.

Manuel de Teffé

L’uomo segnaposto: il mio Ferragosto col re dei clochard. Da una società feudale all’economia di relazione – IV parte

Dopo che la società gli ha istituzionalmente inferto una serie di uppercut a raggiera e  aver perso tutto tranne che  dignità, fede e un’ Alfa 164 ridotta a giaciglio notturno, un ex consulente aziendale/progettista meccanico torinese, cardiomiopatico con prolasso della mitralica a rischio di morte improvvisa e 7 ernie al disco, dopo che intero sistema gli ha definitivamente fatto attorno terra bruciata, si è insediato all’età di 64 anni dove la terra brucia, e preso sovranamente possesso  con regolare autorizzazione dell’entrata al sottopasso per piazza San Pietro, sta affrontando il suo destino con una determinazione che  trascende la semplice protesta ma che è diventata progetto.  Da tutta Roma, dal  Marzo 2010, barboni e viandanti di ogni tipo giungono a via delle Fornaci per chiedere udienza al loro re: perché quando una sovranità finisce ai bordi dei marciapiedi, continua a esercitare sovranamente dai bordi dei marciapiedi.

Questo l’identikit dell’uomo col quale ho passato la giornata di Ferragosto, si chiama Luigi Miggiani, è divenuto il punto di riferimento di tutti i clochard romani e vive elegantemente la sua condanna a morte al centro della cristianità in giacca e cravatta, seduto in silenzio a scrivere la sua storia su una sediola al crocevia dei buoni propositi, ogni giorno per dieci ore. Bloccato a Roma per l’Assunta, mi decido a parlare con lui e lo invito  al pub antistante la sua postazione. Dopo un lunghissimo dialogo serrato multitemporale che mi vede come un bambino di 6 anni davanti al suo primo puzzle Ravensubger di 1000 pezzi, finisco solo verso la mezzanotte di assemblare 30 anni di vita, ma ciò che vedo  mi disarciona come il colpo di scena ne  “I soliti sospetti”.  Non si tratta del rebooting della parabola del buon samaritano: è lui il buon samaritano.

Se volete farvi un giro di valzer nella vita del signor Miggiani, lo troverete ad aspettarvi a via delle Fornaci, e sicuramente sarà ben felice di parlare con voi, non è questo il luogo in cui parlare delle sue vicende, basti sapere che è un professionista che ha perso tutto e non ha più avuto la possibilità di reinserirsi alla grande nel tessuto sociale. Come ha perso tutto è estremamente significativo, facendo un lavoro di sintesi estrema potremmo dire quanto segue:

c’era una volta un uomo, che licenziato da una succursale Fiat si mette in proprio e apre a Torino due solide aziende di progettazione e produzione di macchine automatiche speciali, la MD e la M.A.S.A.S. Obbligato a chiuderle per un mancato credito,  si trasferisce a Napoli e apre uno studio di consulenza aziendale (Management Media Group ) e un’associazione di imprenditori (la Feder Asiom) . La grande disoccupazione era secondo lui arginabile rendendo semplicemente pubblici gli incentivi europei; mentre nella condizione imprenditoriale, si poneva in prima persona per risanare aziende in serie difficoltà agevolando gli imprenditori in crisi, che riuscivano così a uscire dal controllo di reti usuraie. Toccando probabilmente gli interessi di  interi gruppi che foraggiavano l’altrui indigenza col business di prestare soldi a strozzo, l’uomo si fa nemici e si ritrova per strada perdendo per sempre la possibilità di reinserirsi in società.

Adesso,  c’è da considerare ciò che  la cultura popolare asserisce sui barboni, e cioè  che i barboni sono barboni per scelta, perché  un giorno hanno voluto chiudere con la società e diventare barboni. E’ una credenza dogmatica, e se è così, la mia coscienza sta relativamente in pace, perché una scelta impone rispetto. Di quando in quando,  il primo di gennaio sento che qualcuno è spirato per congelamento in un cartone sotto i portici di piazza Pio XII e abbozzo con rispetto una smorfia di compassione: in definitiva è il coronamento di un modus vivendi, penso in mefitica buona fede.

In questi ultimi anni, vedendo sempre più italiani migrare all’estero e più famiglie mandare i propri figli fuori per un più facile  inserimento nel mondo del lavoro, ho intuito come tutti i problemi italiani derivino  dal fatto che l’Italia è una società feudale, dove l’economia di relazione, vero fulcro di ogni economia, è totalmente assente per ragioni storico/psicologiche.  Ogni italiano è un misto tra il Gattopardo, il Padrino e il Divo, ecosistemi in cui il nuovo non può entrare senza presentazione e genuflessione; la maggiorparte dei ragazzi, per non passare la vita a vagare tra i feudi come viandanti, preferisce  dunque portare in dote i propri talenti in quelle società che sono aperte e interessate al nuovo. Dalla cattiveria, ci salva una componente a intermittenza di origine francescana.

Ciò che  il re dei clochard ci sta dicendo con la sua clamorosa presenza a un tiro di schioppo dal colonnato di Piazza San Pietro  è appunto che questa società feudale avanzata non va bene. E il signor Miggiani, non essendo più riuscito a entrare in nessun feudo lavorativo e stupendo una società intera,  ha piantato le sue tende fuori da tutti i feudi e innescato un’economia di relazione dirompente RICEVENDO TUTTI  senza presentazione, se non un’immediata stretta di mano non mediata.

“Io sono un ex consulente aziendale e sono qui a protestare per fare in modo di smentire quella voce che dice che questa è una scelta; non c’è nessuno che lascia volontariamente la propria casa per andare a vivere all’addiaccio in mezzo alla strada. La mia protesta quindi è per cercare di portare alla luce questa grave carenza anticostituzionale che è l’isolamento sociale. Si parla tanto di omosessualità, di differenza di razza e colore ma non si parla mai di quest’altra forma di discriminazione; l’isolamento sociale è una condanna a morte. Non sono qui solo per parlare del mio caso ma parlo a nome di tutti coloro che sono stati abbandonati. Non sono più qui per risolvere la mia situazione, ma per portare all’attenzione delle istituzioni il problema dell’isolamento sociale mascherato sotto la forma del barbone. Nessuno sceglie questa vita, dietro alla maschera del barbone vi è celata la peggiore delle condanne: lo sato di abbandono. Il clochard è un cittadino propositivamente ridotto a tale. Offerte di lavoro? Adesso non più, desidero solo rappresentare i clochard, gridare quotidianamente che davanti ai nostri occhi  muoiono dei nostri simili mentre noi pensiamo che tutto sia normale per quella indegna voce che è stata lasciata diramare e che asserisce che se sei clochard è per scelta. Quando mai. Tutti sognano un lavoro, un tetto e un letto. In nessuno stato civile è ammesso che un essere umano debba morire da randagio come un cane e dove oggi chi abbandona un cane è passibile di arresto in flagranza di reato. Moriamo per omissione di soccorso. Forse il mio destino non era di progettare macchinari e robotica ad alta tecnologia, ma di arrivare qui a Roma per sostenere chi non ha voce in capitolo. Sono un cuore che batte, che ha avuto una storia e che ha contribuito alla crescita economica sociale italiana. Perdono tutti coloro che mi hanno fatto del male. ”

Signor Miggiani, sono un regista, sono abituato alla sintesi per immagini e domani parto, la prego, mi dica esattamente cosa vuole per lasciare questa sua postazione e smontare i cartelloni di protesta a via delle Fornaci.

“Voglio prendere voce per i clochard a livello istituzionale, come Lussuria per gli omosessuali.”

Me ne vado pensando come quest’uomo stia lì come segnaposto, al suo posto ci potrei essere io, qualche mio amico o qualcun altro che non conosco, non è difficile ritrovarsi con un pugno di mosche in mano in un’economia chiusa e maldestra come quella italiana: un pagamento che ritarda, 2 multe da pagare, 6 mesi senza lavorare, la finanza che finanza la finanza. Come dice il mio amico violinista Manfred: “L’unica caratteristica dei soldi è che finiscono”; e come dice il mio amico imprenditore Valerio: “La provvidenza ti intercetta a metà strada”.  E a metà strada mi ha intercettato il buon samaritano di via delle Fornaci, facendomi toccare con mano il suo ultimo progetto di vita.

GLI E’ STATA FATTA TERRA BRUCIATA INTORNO E ADESSO SI E’ INSEDIATO DOVE LA TERRA BRUCIA. PERCHE’ QUANDO UNA SOVRANITA’ FINISCE AI BORDI DEI MARCIAPIEDI, CONTINUA A ESERCITARE SOVRANAMENTE DAI BORDI DEI MARCIAPIEDI.

http://g.co/maps/r579h

Manuel de Teffé

L’uomo segnaposto. Link all’articolo pubblicato da “L’italiano”

Antonio Di Girolamo: “La mia esperienza sul set più estenuante della mia vita.”

Ogni stagione passa e inevitabilmente lascia qualcosa d’indelebile dentro di noi; quello che mi rimarrà di quest’estate sarà senza dubbio il lavoro che abbiamo fatto assieme! Ancora una volta ottengo conferma che per realizzare qualcosa di concreto c’è bisogno di una forza che non può che derivare da una grande passione, una forza così grande che ti spinge a lavorare sodo, a non demordere e a far sì che fatica e sudore ti diano quella sensazione appagante di aver contribuito a creare qualcosa. Ognuno di noi ha accettato la sua sfida personale ed era pronto a portarla a termine con successo; nel mio caso ho avuto la possibilità di esplorare l’animo di un personaggio molto diverso da quello della mia persona e spero di essere stato all’altezza della situazione. Probabilmente niente di tutto questo si sarebbe impresso nel mio cuore se non avessi avuto l’occasione di lavorare con una bellissima squadra. Tutti, Manuel de Teffé, Renato Paioli, Simona Petrucci, etc. tutti senza eccezioni, hanno dato prova di amore per il proprio lavoro e grande professionalità (cosa che di questi tempi viene spesso a mancare) ed io sono contento di aver condiviso con voi questa esperienza. Grazie ragazzi!

Antonio Di Girolamo

“I miei 40 gradi all’ombra.” L’esperienza sul set del protagonista di “Napoletans”.

Amazing grace: una canzone che resterà nel mio cuore…. Il suo significato è sinonimo di forza, speranza, determinazione, ma soprattutto voglia di cambiare, di rinascere e non arrendersi. Tutto questo,l’ho provato sulla mia pelle, nei giorni passati sul set. Giornate caratterizzate da momenti difficili, i più duri da quando ho iniziato questa bellissima carriera: è sorprendente come la vita riesca ad organizzare e a far si che le esperienze passate servano per le sfide future. Ho iniziato a studiare recitazione perché mi sono reso conto che non ero felice, sentivo una forza dentro che mi spingeva a chiedere di più dalla mia vita, che non potevo fermarmi  e non esplorare quella bella cosa che è l’animo umano e tutte le sue sfaccettature, e così ho abbandonato la facoltà di Sociologia e mi sono iscritto all’accademia di recitazione “Studioteatro” di Napoli. Dopo tre anni, tanto teatro e una piccola parte nella “Squadra 8” in onda su Rai 3, ho deciso di completare gli studi a Roma dall’insegnante Giulia Cantore. Ricordo che per un anno, ho quasi vissuto in treno, tra Napoli e Roma e nello stesso tempo ho preso parte a “Sezione anticrimine” e “La Nuova squadra” sempre su Rai 3. Indimenticabile l’esperienza del mio primo ruolo da protagonista nel cortometraggio diretto da Edoardo Limone “Re-Dream” e subito dopo “Incontri al Buio” per la regia di Antonio Centomani. Tutto questo, mi ha dato la carica per fare di più, e con grosso sacrificio e pochi soldi, ho scelto di partire per Los Angeles, per studiare alla scuola di Catherine Carlen, membro a vita dell’Actors Studio. Il mio primo giorno, quando a piedi camminavo per le colline di Hollywood, chiedendomi dove mi avrebbe portato tutto questo. Tornato in Italia e con il diploma in tasca, ho girato vari spot, “Miranda Cars” e due per “Vodafone”, poi finalmente la mia occasione, è la volta di “Napoletans” film per il cinema che mi vede protagonista, in uscita tutte le sale da Ottobre 2011. Tutte queste esperienze mi hanno, senza volere, preparato per la sfida più faticosa che ho affrontato su un set, quando il regista Manuel de Teffé mi ha telefonato e successivamente mi ha confermato per il ruolo del pugile, ho provato una forte emozione, mi sono preparato mentalmente e fisicamente, ed è stata tanta la fatica e i sacrifici fatti in quelle caldissime giornate di Luglio, eravamo tutti stremati, ma uniti dalla voglia di fare e di portare a termine il progetto. Con il mio personaggio ero in grossa sintonia, mi ha insegnato tanto, un uomo che non si arrende, che lotta e nonostante i colpi subiti ha la forza di rialzarsi. Ringrazio Manuel per la splendida occasione e la magnifica esperienza, ricorderò sempre questo videoclip, come il “MIO” videoclip, e sono sicuro che a prodotto ultimato, saremo tutti orgogliosi e fieri della “squadra” che siamo diventati.

Renato Paioli

www.studiofidemi.it

I miei giorni sul set di Manuel nonostante i 40 gradi all’ombra. Luglio 2011.

Ciao Manuel…guardando le immagini della sneak preview  mi tornano in mente i giorni in cui abbiamo lavorato insieme per realizzare il video musicale “amazing grace”. Indimenticabili in quanto sono stati i giorni più caldi di luglio…ma nonostante questo abbiamo avuto la forza e la voglia di portare a termine questo progetto e non ci siamo fermati davanti a niente. Abbiamo avuto difficoltà, a volte è mancata la forza fisica…ma ce l’abbiamo fatta…e per questo voglio ringraziarti, perchè con te ho imparato cosa significa in questo lavoro la collaborazione ..essere un gruppo, pronto ad aiutarsi. Io ho iniziato questo lavoro un pò per gioco, fermata da un talent scout nel centro di roma, e dopo aver cominciato a lavorare in tv, ho capito che dovevo preparami, dovevo studiare. Per questo motivo ho frequentato la scuola di Beatrice Bracco, di Jenny Tamburi e le lezioni della Stella Adler di Los Angeles, esperienza che mi ha fatto maturare molto. Ho lavorato per parecchi spot pubblicitari, sia per l’Italia come Lines, Master Card, Unieuro, lo spot della Tim in 2, ma anche  per produzioni straniere come ad esempio Rice Aroni per gli Stati Uniti, Hyundai per lo sponsor dei mondiali di calcio in Corea, Samsung per il Giappone, Fiat Palio per la Russia e molti altri. Ho avuto modo di lavorare per  incantesimo, in una fiction tv, Noi Due , per questo posso dirti che la passione che vedo in te per questo lavoro è tanta, e la cosa che mi stupisce e che è difficile a volte trovare è la voglia che hai di trasmetterla agli altri, a noi attori che abbiamo il privilegio di lavorare con te. Spero che il risultato finale di questo prodotto possa portare tanta fortuna a tutti noi…”alla squadra” che lo ha realizzato. E come dice Paulo Coelho ” Il mondo è nelle mani di coloro che hanno il coraggio di sognare e di correre il rischio di vivere i propri sogni”. Grazie Manuel!!

Simona Petrucci

 www.studiofidemi.it