Gli eletti salutano per primi: le vertigini di un buongiorno. Come salutarsi offline ai tempi di Faccialibro – Da una società feudale a un’economia di relazione – VII parte

Quand’ero bambino, verso i dieci anni, feci la seconda più grande scoperta della mia vita.  La cristallizzazione di quella scoperta fu accelerata in seguito alla mia prima polaroid, regalo che probabilmente acuì il portafoglio di percezioni e deduzioni accumulate da dopo l’affrancamento Lines. Tuttavia, raggiunsi la completezza di tale acquisizione in quattro tappe precise.

1. Il dubbio romano Nel corso degli anni, scendendo ogni mattina con mio padre per via dei “Pinnacchi blu” notavo da lontano che  i vari negozianti, ognuno sull’uscio del proprio negozio, chi sguardo rivolto al vuoto, chi a biascicarsi una sigaretta, chi ad aspettare Godot,  si ritraevano in bottega prima che noi varcassimo la linea di riconoscimento sensibile, ossia quei dodici  metri in cui non puoi non balbettare un saluto di convenienza quando la tua esistenza sta per speronare un’altra, perché è chiaro che gli sguardi si stanno per incrociare ed è fisicamente impossibile non entrare in relazione. Per una psicologia che ignoravo invece, a 12 metri dall’entrata in area di barista, calzolaio, vinaio e fruttivendolo, ognuno di loro rientrava in negozio come per evitare un mutuo saluto. Come per non fare accaderlo, per non essere sottoposti al peso di una risposta scontata. Avevo la sensazione che io e mio padre pestassimo per terra, a un certo punto del marciapiedi, qualche bottone invisibile che attivasse un’energia di risucchio dal retrobottega. Arrivati dal pasticcere, sempre dentro a lavorare, buongiorno-buongiorno, si prendeva una pasta allo zabaione e si tornava indietro. Stessa avanzata, stessi rientri.

Con mia madre esperta in pubbliche relazioni, mio padre attore e una geografia di vorticose comunicazioni attorno alla famiglia, iniziai a percepire che esistevano italiani che vivevano nei loro mondi e, lentamente,  che gli italiani vivevano rinchiusi in altri mondi: era la società feudale che avrei teorizzato una volta a New York. Ma mi diedi tempo, continuai ad osservare il fenomeno finché la sua ripetizione negli anni non suggellò il convincimento che quanto avveniva non fosse affatto casuale. Quel giorno avevo 10 anni ed ero deciso a esporre il dubbio a mio padre, ma venendo lui a Roma una volta ogni 12 mesi, non avevo ancora molta dimestichezza con la relazione e non dissi nulla: avrei rimandato la domanda di ben 18 anni.

2. Realizzazione inglese Tuttavia, willy nilly, sviluppai nel tempo e senza sospettarlo la dipendenza da non saluto, e quando mi ritrovai a diciannove anni in vacanza in Inghilterra a Hemel Hempstead ospite dell’allegra brigata Massey (amici d’infanzia di mia madre), mi resi tristemente conto di come la mia più grande preoccupazione esistenziale fosse schivare la slavina mattutina dei “Good morning!” e degli “How did you sleep”. Non dimenticherò mai lo stato d’animo del primo risveglio da ospite. Mi recai in cucina a fare colazione, Simon, mio coetaneo, già seduto per il breakfast, con due fiocchi di granturco incollati ai lati della bocca mi apostrofò un cisposo : “Good morning Manuel, did you sleep well?” Risposi subito “buon giorno” ma tentennai sul seguito, ragionai sul fatto di aver dormito bene, una domanda fuori dall’evoluzione delle mie risposte…“Goodness, it was freaking cold last night!” Carburai un po’ cupo. “Plus it’s Summer, but yes I slept well, I had weird dreams though, you know?…” Mi sedetti, precipitai anch’io qualche conrnflakes nel latte ma fui poco dopo assalito dalla stessa domanda in bocca al fratello minore , che all’altezza del tostapane ripetè con la stessa inflessione: “Good morning Manuel! How did you sleep?” Clonai la risposta già data variandola leggermente verso la fine per non cadere in una scontata ripetizione. Quando mi entrarono entrambi i genitori:”Good morning Manuel!” Proclamò Eleonor .”Did you sleep well?”  Rincarò la dose John con aria inquisitoria. In quel momento Il latte iniziò ad avere un sapore amaro. I cornflakes nel cucchiaio divennero pesanti. “Good morning John,  Good morning Eleonor. I slept very well thank you, it was a lovely night. A very lovely night, thank you so much. And you? How di you sleep ? “ Pensavo di aver finito di scontare una pena sconosciuta, quando a ruota, ricevetti il colpo di grazia. Catherine, la terza figlia, chioma rossa selvaggia e maglione verde fosforescente, mi accoltellò col suo personale “Good morning, how did you sleep?”, ma con un brio che mi imponeva una risposta su misura. Rapida immersione nelle marianne del mio subconsio. Raccolgo il guanto. Emersione e Numero. Per un progressivo desiderio di originalità, onde non suonare banale, la intrattenni per dieci minuti spiegando come avevo passato la notte utilizzando il tappeto di finto orso bianco come seconda coperta, di come stavo quasi per staccare le tende verdi e avvolgermi come un bruco. Risero tutti mentre io facevo finta di divertirmi: in realtà stavo sperando disperatamente che Ben , il quarto fratello, si alzasse tardi o che non si alzasse affatto.

Il giorno dopo, al mio risveglio, tesi bene le orecchie agli spostamenti di passi nella casa, smistando mentalmente i movimenti di animali domestici dallo spantofolio umano, determinato a entrare in cucina solo quando tutti i Massey fossero già a tavola a nuotare tra i cornflakes, per evitare il martirio dei buongiornoaudidiuslip, napalm sui miei timpani. Un buongiorno collettivo sarebbe stato più che sufficiente. Ero forse diventato anch’io uno dei pii negozianti di via dei Pennacchi? Provavo forse lo stesso tipo di imbarazzo?  E se accadeva ciò, quali erano gli underpinnings di una psicologia che aveva timore di un semplice buongiorno? Lo avrei scoperto in Francia solo nove anni dopo.

3. L’epifania francese Ero nuovamente in vacanza, questa volta a Paray le Monial,  in Borgogna. Una mattina mi alzo e vado a fare colazione in un café. Il posto era gremito di ragazzi, prendo un “cappuccino”, un croissant e mi siedo. Arriva una ragazzina di 15-16 anni minuta e insignificante, mi si siede di fronte. Mentre sto per dare la prima mano di burro, sorride prendendomi alla sprovvista: “Bon jour, ça va?” Mi dicono 2 trecce bionde con una dolcezza che non meritavo. I was blown away: fu come se qualcuno mi avesse segnato un rigore da un’altra galassia… Vidi in quel buongiorno il centro della via lattea, sistole e diastole, Carl lewis che sfondava i duecento, il riflesso del lupo di Gubbio negli occhi di Francesco. Mi commossi profondamente: quella ragazzina non aveva detto buongiorno, era lei stessa il mio buon giorno, era la garanzia del mio buon giorno, l’assegno circolare di una giornata che sarebbe andata in porto. Capii dunque come tutti i buongiorno romani fossero stati evirati sia del giorno che del buon. Di come l’augurio per eccellenza, per pigrizia, si fosse assentato da sé sesso. La parola si era smagnetizzata dal suo significato, aveva fatto una crociera nei Caraibi e aveva lasciato il significato a casa a fare la maglia. Un po’ come la mano che ti si struscia sulla testa ma non espelle carezze perché il pensiero sgranchisce altrove i suoi neuroni. Tornai a Roma stupito e provai quel nuovo buongiorno senza che nessuno se ne accorgesse. Cercai di riallinearlo al suo significato senza farlo partire più dalle retrovie di una mia distrazione. Ma il significato si era ormai squantizzato dal termine e un mio buongiorno poteva dire qualsiasi cosa: ci volle del tempo prima che quella parola tornasse a significare tutto.

4. La spiegazione di Rio  Fu però a Rio de Janeiro, lo stesso anno a casa di mio padre, che capii definitivamente come stavano le cose. Era mattino, mi trovavo nel mezzo della mia permanenza in Brasile, quando si iniziano a fare i conti col pensiero del ritorno ma si spera  ancora che  l’incontro della seconda settimana, coltivato bene nella terza, possa sbocciare clamorosamente nella quarta. Quell’eccitazione da sabato del villaggio si agitò nello stagno delle mie memorie facendo riaffiorare un pensiero sepolto. “Sai papà, sin da bambino mi è sempre sembrato che i negozianti di via dei Pennacchi si ritraessero al nostro passaggio, come se avessero paura, non so, di essere obbligati a salutarci. Mi sembra proprio che a Roma la gente faccia fatica a dirti buongiorno. Ma perché?” Dall’altro lato della stanza, seduto su un divano di bambù, fiotti di sole alle spalle, in epica controluce, mio padre mi guardò sorridente con un caffellatte enorme tra le mani e disse.

“Gli eletti salutano per primi”.

(Anthony Steffen)

Manuel de Teffé

P.S. QUESTO ARTICOLO E’ DEDICATO ALLA MIA AMICA ANGELIKA, CHE TORNATA DALL’AFRICA, DOPO UN ESTENUANTE LAVORO NEI CAMPI PROFUGHI KENIOTI, SI DOMANDA DEL PERCHE’ QUI SI FACCIA COSI’ FATICA A SCAMBIARSI UN SEMPLICE BUONGIORNO.

“IGIOVANI” : l’epitaffio semantico che ha relegato in una terra di nessuno la metà degli italiani. “Da una società feudale a un’economia di relazione.” – V parte.

I giovani hanno ragione. Una politica per i giovani. La rabbia dei giovani. Sei giovane. Un cappuccino al giovane. Il giovane scrittore. Il giovane imprenditore. Il giovane regista. La giovane mamma. Le giovani coppie. Le giovani famiglie. Il giovane prete. Jovanotti. E’ giovane. E’ troppo giovane. E’ ancora giovane. Sei ancora troppo giovane. Come sei giovane. Voi giovani. Noi giovani in fuga dalla politica. Un vescovo vicino ai giovani. La politica dalla parte dei giovani. Le politiche giovanili. La pastorale giovanile. Noi giovani siamo una risorsa. Noi giovani senza futuro. Noi giovani e la protesta globale. La crisi la paghiamo noi giovani. Il ruolo dei giovani. Noi ascoltiamo i giovani. Diamo voce ai giovani. Spazio ai giovani. I giovani di una volta. I giovani di talento. Noi giovani siamo inca. Ma se gli Inca si sono estinti è perché erano troppo indignados?  I giovani. I giovani. I giovani. IGIOVANI.

In Italia, la parola IGIOVANI è divenuto l’epitaffio semantico di una realtà prorompente: la giovinezza. Reiterata sino all’inverosimile,  IGIOVANI ha assunto nel nostro paese la forma di lager esistenziale, una zona franca che appena pronunciata relega automaticamente milioni di italiani in un limbo concettuale dal quale nessuno sa più come e quando uscirne. Se le parole avessero stoffa, la consunzione di IGIOVANI non permetterebbe neanche di vedere le trame originali del tessuto che la compone. Mentre le trame originali della gioventù sono: audacia, sorrisi, forza, velocità, freschezza, testacoda, ma sopratutto lampi nella notte e folate pazze. Una potenza di fuoco inaudita finita in salamoia semantica.

Qualche decennio dopo la seconda guerra mondiale, quando l’Italia si è riorganizzata e ha alzato la testa, si è anche richiusa in sé stessa rifeudalizzandosi come nessun altro paese al mondo: i nostri uomini e donne migliori ( i giovani ) si sarebbero trasformati molto lentamente e senza saperlo ne IGIOVANI, diventando invisibili. La luce si curva sulla parola vuota, non la illumina, e il termine diventa mantello che da invisibilità alla direzione della pronuncia.  Perché IGIOVANI vivono negli interstizi di una società feudale  in un ciclo continuo di moonwalking tra casa di mamma e ponte levatoio del castello sociale. Essi cercano in tutti i modi di entrare in società e, non riuscendoci, emigrano, si indignano, condividono su faccialibro.  IGIOVANI, non devono essere però confusi con NOIGIOVANI, c’è una differenza come inbound/outbound.

Quando IGIOVANI torneranno ad essere esseri umani, si potrà nuovamente utilizzare questo termine, per ora proporrei un digiuno terminologico su scala nazionale a tempo indeterminato. Che nessuno pronunci questa parola. Che nessuno si appaghi condividendo in bacheca. La ragazza che intervistata al telegiornale apre il suo discorso con ” IGIOVANI”,  si sta mandando in quel momento una maledizione,  un’automacumba carpiata, ci ipnotizza e diventa invisibile come il percorso di un tergicristalli dopo 10 ore di viaggio.

“NOIGIOVANI…” E scompare il portavoce ventottenne di un corteo di 10.000 coetanei manifestanti a Piazza Cavour per una società migliore. “IGIOVANI e il mondo del lavoro”  E l’anchorman  RAI occulta 12 milioni di italiani in un colpo. La luce, ripeto, si curva sulla parola vuota.

Neanche Houdini è riuscito in tanto: provate questo esperimento. Se pronunciate questa parola avete due possibilità. Se avete meno di 50 anni scomparirete: NOIGIOVANI. Cosa vedete?  Nulla? Ne avete da 18 a 49.  Se invece avete più di 50 anni farete scomparire gli altri. Se dite “Sei giovane” avrete eliminato il ragazzo di talento che spera di lavorare con voi, che spera che voi gli facciate da mentore. Non ci vuole un master in transemantica con indirizzo in criminologia per capire come la pronuncia cieca e continua di  un termine fa scomparire l’oggetto del termine stesso. Provate a dire ti amo a salve. Provate ad accarezzare un figlio senza intenzione. Provate a tuffarvi senza acqua. A battere il la per tre ore, senza fermarvi, sulla tastiera di un pianoforte a coda nella hall di uno hotel  a cinque stelle. Dopo 180 minuti avrete fatto scomparire sia il la che la musica stessa. Il la ha cancellato la musica.  La ha nascosta.

In Italia, i ragazzi, sotto il fardello ipertestuale de IGIOVANI sono rimandati costantemente al nulla vertiginoso, non sanno esattamente più chi sono, sanno solo che non sono vecchi, e in quanto avulsi dai giochi dei vecchi abdicano semanticamente al loro ruolo di uomini e donne e diventano IGIOVANI, come Bruce Wayne è divenuto Batman. Come Michael Jackson è divenuto Jacko. Ma almeno Wayne aveva un Jocker e Peter Pan un Uncino. I GIOVANI hanno IGIOVANI.

Mentre invece la verità universale è che: un ragazzo dopo i 18 anni è un uomo giovane. A 30 un uomo giovane è un uomo: di lì, si matura progressivamente. A 18 anni una ragazza è una donna giovane. A 28 è una donna: di lì, matura progressivamente.

Mai un termine è stato così a buon mercato. E allora gli italiani dovrebbero lanciare un’OPA su IGIOVANI, la più grande OPA del dopoguerra, la più importante, prendere possesso di questa parola non pronunciandola più e metterle nel CDA  una bambina che corre sorridente, un mascalzone con con uno splendido sorriso a quattro denti, lampi nella notte e folate pazze.

Nel frattempo mia figlia l’ho fatta nascere in Germania dove non esistono IGIOVANI, come non esistono né in Gran Bretagna, né in Francia, né in Spagna.

Lanciamo l’OPA? Le azioni adesso non costano nulla e sarebbe un’ottimo affare. Per tutti. Lanciamo l’OPA prima che mia figlia si svegli. Anzi, papà l’ha già lanciata. L’ha già lanciata.

Manuel de Teffé

L’uomo segnaposto: il mio Ferragosto col re dei clochard. Da una società feudale all’economia di relazione – IV parte

Dopo che la società gli ha istituzionalmente inferto una serie di uppercut a raggiera e  aver perso tutto tranne che  dignità, fede e un’ Alfa 164 ridotta a giaciglio notturno, un ex consulente aziendale/progettista meccanico torinese, cardiomiopatico con prolasso della mitralica a rischio di morte improvvisa e 7 ernie al disco, dopo che intero sistema gli ha definitivamente fatto attorno terra bruciata, si è insediato all’età di 64 anni dove la terra brucia, e preso sovranamente possesso  con regolare autorizzazione dell’entrata al sottopasso per piazza San Pietro, sta affrontando il suo destino con una determinazione che  trascende la semplice protesta ma che è diventata progetto.  Da tutta Roma, dal  Marzo 2010, barboni e viandanti di ogni tipo giungono a via delle Fornaci per chiedere udienza al loro re: perché quando una sovranità finisce ai bordi dei marciapiedi, continua a esercitare sovranamente dai bordi dei marciapiedi.

Questo l’identikit dell’uomo col quale ho passato la giornata di Ferragosto, si chiama Luigi Miggiani, è divenuto il punto di riferimento di tutti i clochard romani e vive elegantemente la sua condanna a morte al centro della cristianità in giacca e cravatta, seduto in silenzio a scrivere la sua storia su una sediola al crocevia dei buoni propositi, ogni giorno per dieci ore. Bloccato a Roma per l’Assunta, mi decido a parlare con lui e lo invito  al pub antistante la sua postazione. Dopo un lunghissimo dialogo serrato multitemporale che mi vede come un bambino di 6 anni davanti al suo primo puzzle Ravensubger di 1000 pezzi, finisco solo verso la mezzanotte di assemblare 30 anni di vita, ma ciò che vedo  mi disarciona come il colpo di scena ne  “I soliti sospetti”.  Non si tratta del rebooting della parabola del buon samaritano: è lui il buon samaritano.

Se volete farvi un giro di valzer nella vita del signor Miggiani, lo troverete ad aspettarvi a via delle Fornaci, e sicuramente sarà ben felice di parlare con voi, non è questo il luogo in cui parlare delle sue vicende, basti sapere che è un professionista che ha perso tutto e non ha più avuto la possibilità di reinserirsi alla grande nel tessuto sociale. Come ha perso tutto è estremamente significativo, facendo un lavoro di sintesi estrema potremmo dire quanto segue:

c’era una volta un uomo, che licenziato da una succursale Fiat si mette in proprio e apre a Torino due solide aziende di progettazione e produzione di macchine automatiche speciali, la MD e la M.A.S.A.S. Obbligato a chiuderle per un mancato credito,  si trasferisce a Napoli e apre uno studio di consulenza aziendale (Management Media Group ) e un’associazione di imprenditori (la Feder Asiom) . La grande disoccupazione era secondo lui arginabile rendendo semplicemente pubblici gli incentivi europei; mentre nella condizione imprenditoriale, si poneva in prima persona per risanare aziende in serie difficoltà agevolando gli imprenditori in crisi, che riuscivano così a uscire dal controllo di reti usuraie. Toccando probabilmente gli interessi di  interi gruppi che foraggiavano l’altrui indigenza col business di prestare soldi a strozzo, l’uomo si fa nemici e si ritrova per strada perdendo per sempre la possibilità di reinserirsi in società.

Adesso,  c’è da considerare ciò che  la cultura popolare asserisce sui barboni, e cioè  che i barboni sono barboni per scelta, perché  un giorno hanno voluto chiudere con la società e diventare barboni. E’ una credenza dogmatica, e se è così, la mia coscienza sta relativamente in pace, perché una scelta impone rispetto. Di quando in quando,  il primo di gennaio sento che qualcuno è spirato per congelamento in un cartone sotto i portici di piazza Pio XII e abbozzo con rispetto una smorfia di compassione: in definitiva è il coronamento di un modus vivendi, penso in mefitica buona fede.

In questi ultimi anni, vedendo sempre più italiani migrare all’estero e più famiglie mandare i propri figli fuori per un più facile  inserimento nel mondo del lavoro, ho intuito come tutti i problemi italiani derivino  dal fatto che l’Italia è una società feudale, dove l’economia di relazione, vero fulcro di ogni economia, è totalmente assente per ragioni storico/psicologiche.  Ogni italiano è un misto tra il Gattopardo, il Padrino e il Divo, ecosistemi in cui il nuovo non può entrare senza presentazione e genuflessione; la maggiorparte dei ragazzi, per non passare la vita a vagare tra i feudi come viandanti, preferisce  dunque portare in dote i propri talenti in quelle società che sono aperte e interessate al nuovo. Dalla cattiveria, ci salva una componente a intermittenza di origine francescana.

Ciò che  il re dei clochard ci sta dicendo con la sua clamorosa presenza a un tiro di schioppo dal colonnato di Piazza San Pietro  è appunto che questa società feudale avanzata non va bene. E il signor Miggiani, non essendo più riuscito a entrare in nessun feudo lavorativo e stupendo una società intera,  ha piantato le sue tende fuori da tutti i feudi e innescato un’economia di relazione dirompente RICEVENDO TUTTI  senza presentazione, se non un’immediata stretta di mano non mediata.

“Io sono un ex consulente aziendale e sono qui a protestare per fare in modo di smentire quella voce che dice che questa è una scelta; non c’è nessuno che lascia volontariamente la propria casa per andare a vivere all’addiaccio in mezzo alla strada. La mia protesta quindi è per cercare di portare alla luce questa grave carenza anticostituzionale che è l’isolamento sociale. Si parla tanto di omosessualità, di differenza di razza e colore ma non si parla mai di quest’altra forma di discriminazione; l’isolamento sociale è una condanna a morte. Non sono qui solo per parlare del mio caso ma parlo a nome di tutti coloro che sono stati abbandonati. Non sono più qui per risolvere la mia situazione, ma per portare all’attenzione delle istituzioni il problema dell’isolamento sociale mascherato sotto la forma del barbone. Nessuno sceglie questa vita, dietro alla maschera del barbone vi è celata la peggiore delle condanne: lo sato di abbandono. Il clochard è un cittadino propositivamente ridotto a tale. Offerte di lavoro? Adesso non più, desidero solo rappresentare i clochard, gridare quotidianamente che davanti ai nostri occhi  muoiono dei nostri simili mentre noi pensiamo che tutto sia normale per quella indegna voce che è stata lasciata diramare e che asserisce che se sei clochard è per scelta. Quando mai. Tutti sognano un lavoro, un tetto e un letto. In nessuno stato civile è ammesso che un essere umano debba morire da randagio come un cane e dove oggi chi abbandona un cane è passibile di arresto in flagranza di reato. Moriamo per omissione di soccorso. Forse il mio destino non era di progettare macchinari e robotica ad alta tecnologia, ma di arrivare qui a Roma per sostenere chi non ha voce in capitolo. Sono un cuore che batte, che ha avuto una storia e che ha contribuito alla crescita economica sociale italiana. Perdono tutti coloro che mi hanno fatto del male. ”

Signor Miggiani, sono un regista, sono abituato alla sintesi per immagini e domani parto, la prego, mi dica esattamente cosa vuole per lasciare questa sua postazione e smontare i cartelloni di protesta a via delle Fornaci.

“Voglio prendere voce per i clochard a livello istituzionale, come Lussuria per gli omosessuali.”

Me ne vado pensando come quest’uomo stia lì come segnaposto, al suo posto ci potrei essere io, qualche mio amico o qualcun altro che non conosco, non è difficile ritrovarsi con un pugno di mosche in mano in un’economia chiusa e maldestra come quella italiana: un pagamento che ritarda, 2 multe da pagare, 6 mesi senza lavorare, la finanza che finanza la finanza. Come dice il mio amico violinista Manfred: “L’unica caratteristica dei soldi è che finiscono”; e come dice il mio amico imprenditore Valerio: “La provvidenza ti intercetta a metà strada”.  E a metà strada mi ha intercettato il buon samaritano di via delle Fornaci, facendomi toccare con mano il suo ultimo progetto di vita.

GLI E’ STATA FATTA TERRA BRUCIATA INTORNO E ADESSO SI E’ INSEDIATO DOVE LA TERRA BRUCIA. PERCHE’ QUANDO UNA SOVRANITA’ FINISCE AI BORDI DEI MARCIAPIEDI, CONTINUA A ESERCITARE SOVRANAMENTE DAI BORDI DEI MARCIAPIEDI.

http://g.co/maps/r579h

Manuel de Teffé

L’uomo segnaposto. Link all’articolo pubblicato da “L’italiano”

Orfanotrofio Italia: mentori italiani cercansi. Da una società feudale all’economia di relazione (III parte)

AGLI UOMINI ITALIANI DAI 40 AGLI 80 ANNI E ALLA LORO SOPITA CAPACITA’ DI FARSI MENTORI.

Link all’articolo sull’Italiano

Se l’Italia è una società feudale, dove anche la più insignificante delle strutture diventa nel tempo un feudo impenetrabile, dove ogni logo è bunker autoreferenziale, e nessun buon progetto può avviarsi senza santi in paradiso, l’uomo che debutta in società dopo la parentesi liceale, non sa ancora che il proprio paese non vorrà aver niente a che vedere con lui, e inizierà a muovere i primi passi in quello che si manifesterà a un certo punto come un mostruoso orfanotrofio sconfinato poiché privo di quella figura essenziale che appare dal nulla  quando ogni giovane, ormai pronto per l’incontro, ha bisogno di una propulsione nuova e sconosciuta per prendere definitivamente il largo: sto parlando del mentore, e adesso accennerò al primo che conobbi.

Le modalità secondo le quali un uomo inizia ad assolvere al proprio e ineluttabile ruolo di mentore sono sempre le stesse: è cercato da un giovane che lo avvicina e lo elegge a mentore, cerca lui stesso un giovane perché deve tramandare una certa conoscienza, è già accanto al giovane da molto tempo ed esercita tale funzione automaticamente, senza che nessuno dei due se ne renda conto. Il mio primo mentore rientra nella terza categoria, non l’ho cercato, era già accanto a me: il mio professore di Disegno al liceo romano Pio IX, Mario Salvatori, buon’anima. Quando avevo 18 anni e il prof. Salvatori entrava in classe, io non vedevo un professore ma percepivo un uomo. Mario era l’essenza dell’insegnamento stesso emanata da un signore settantenne stazza un metro e 90 e assorbita da noi per osmosi.  L’uomo era vedovo, un figlio disabile a casa, una scatola di mentine in tasca e un barboncino al guinzaglio; un lord senza tempo che ci insegnava tutto ciò che sapeva: nelle sue classi, anche gli oggettivamente inetti toccavano considerevoli cime artistiche …Come diceva a chi avanzava la scusa del “Non ho la mano”…:” “Tesoro bello manico d’ombrello, non è la mano che disegna, ma il cervello”. Sotto il suo sguardo, crescevamo come in una serra, protetti, rigogliosi, stimati. E non dimenticherò mai quelle due settimane in cui, tornato dalla Svezia dopo la maturità, mi armò fino ai denti per l’esame di ammissione all’Accademia di Belle Arti, munendomi persino di ordigni intellettuali non convenzionali.

Twist in the plot: l’influenza del mentore può essere scientificamente provata dalla fisica quantistica, che ridotta in soldoni ci dice: “L’osservatore influenza l’osservato”. Per non far prendere a questo mio articolo fuorvianti e basse pieghe sentimentali, vi dirò che ciò che avviene a livello molecolare è interessantissimo: quando osservate, le particelle subatomiche sono influenzate a livello comportamentale, non modificate, influenzate.

Adesso, esistono tre tipologie di paternità in grado di influenzare l’arco della nostra vita, 3 tipi di padri. C’è il padre fisico, quello di nascita, che nel tempo scopri essere ottenebrato dal raggiungimento di una stabilità economica continua; il padre spirituale, come prete, che nel tempo scopri difficile da avvicinare perché si sta preparando sempre una predica migliore da fare e ha bisogno di scrivere in pace; e l’uomo che entrati in società si deve conoscere per una necessaria crescita umano-professionale,  il padre mentore, il genitore tecnico che ti avvia verso la moltiplicazione dei tuoi talenti e finisce col determinare definitivamente la tua fioritura d’uomo. Quest’ultima forma di paternità, a causa dell’assenza di una economia di relazione derivante da una società che non è riuscita a sfeudalizzarsi, esiste in Italia in modo del tutto trascurabile.

La figura del mentore si sviluppa infatti nella misura in cui una società si muove dinamicamente in un’economia di relazione. E L’economia di relazione è quell’atteggiamento che scaturisce dalla consapevolezza che conoscere lo sconosciuto che hai davanti può essere un arricchimento. Consapevolezza che stenta a realizzarsi in una società come l’Italia, storicamente feudale perchè chiusa in una pletora di compartimenti stagni non comunicanti, tutti privi di una “Single window”, porta d’accesso chiara e visibile che determina il contatto immediato di chi vuole proporre qualcosa a.

La cinematografia americana ci fornisce una quantità pressocchè infinita di mentori, da Obi-Wan Kenobi che alleva Luke Skywalker in Star Wars, a Mickey Goldmile che allena lo Stallone italiano in Rocky; da Gordon Gekko che istruisce il giovane Jake in Wall Street 2 a Robin Williams che forma i suoi studenti in “Dead poets society”. Badate bene ai verbi usati: alleva, allena, istruisce, forma. Una società, quella americana, che nonostante i difetti grossolani sotto gli occhi di tutti è sanissima a livello di ricambio generazionale. C’è sempre un vecchio che si nutre della vitalità energetica di un giovane e un giovane che matura accanto all’esperienza donata di un anziano who brings him to the next level…Nessuno può sopravvivere senza l’altro, ognuno, seppur diversamente, è la linfa vitale dell’altro.

Per esemplificare l’atteggiamento di un mancato mentore italiano,  ascoltate cosa diceva il grande direttore della fotografia Tonino Delli Colli al suo imberbe assistente Mario Brega: “Io non ti dirò nulla. Dovrai rubarmi tutto con gli occhi”. Bello, vero?  Un immenso professionista con ridotte capacità di mentore e un allievo che ha dovuto saccheggiare perchè non poteva domandare. Caso isolato? No. La generalizzazione di questo atteggiamento ha portato alla non nascita di una vera industria cinematografica italiana: non abbiamo un’industria, abbiamo gente che gira cose scambiandosi gli attori.

All’inizio di Rocky, Stallone sbarca il lunario come picchiatore, perchè l’uomo al quale dieci anni prima aveva chiesto di allenarlo aveva rifiutato. Una volta arrivata l’occasione dell’incontro con Apollo, è lo stesso allenatore che cercherà Rocky per poterlo allenare. Morale: Lo Stallone italiano diventa Rocky sotto la guida di Mickey, e Mickey conquisterà il suo unico titolo mondiale con Rocky, una mutua realizzazione umana e professionale.

Qualche anno fa, sotto la pioggia di NY, sorseggiando un acquoso caffè americano su un trespolo del supermercato accanto alla mia lavanderia preferita di Harlem, ho calcolato esserci un gap di esatti 10 anni tra la realizzazione di un uomo americano e quella di un uomo italiano. Perchè da noi ognuno è il mentore di sé stesso. Ora, quando un elettrone cambia orbita, c’è un rilascio di energia. Allo stesso modo, quando un mentore aiuta un giovane a passare su un altro livello, c’è lo stesso rilascio di energia, quell’energia che mette in moto l’economia di un paese. Senza un mentore, un giovane necessiterà dunque di molto più tempo per passare su un altro livello e quando rilascerà quell’energia, perché la rilascerà, l’energià sarà di qualità inferiore, vuoi per la stanchezza, vuoi per il tempo.

Quanto scrivo è scritto per gli uomini italiani dai 40 agli 80 anni, ma anche per le donne, perchè leggendo queste righe possano immediatamente farsi mentori di qualcuno.

Cercasi mentori italiani:  quando un elettrone cambia orbita c’è un rilascio di energia. Rilascio di energia. Uscendo dall’orbita.

CERCASI 12 MILIONI DI MENTORI PER UN IMMENSO RILASCIO DI ENERGIA ITALIANA.

Manuel de Teffé

mdeteffe@me.com