Gli eletti salutano per primi: le vertigini di un buongiorno. Come salutarsi offline ai tempi di Faccialibro – Da una società feudale a un’economia di relazione – VII parte

Quand’ero bambino, verso i dieci anni, feci la seconda più grande scoperta della mia vita.  La cristallizzazione di quella scoperta fu accelerata in seguito alla mia prima polaroid, regalo che probabilmente acuì il portafoglio di percezioni e deduzioni accumulate da dopo l’affrancamento Lines. Tuttavia, raggiunsi la completezza di tale acquisizione in quattro tappe precise.

1. Il dubbio romano Nel corso degli anni, scendendo ogni mattina con mio padre per via dei “Pinnacchi blu” notavo da lontano che  i vari negozianti, ognuno sull’uscio del proprio negozio, chi sguardo rivolto al vuoto, chi a biascicarsi una sigaretta, chi ad aspettare Godot,  si ritraevano in bottega prima che noi varcassimo la linea di riconoscimento sensibile, ossia quei dodici  metri in cui non puoi non balbettare un saluto di convenienza quando la tua esistenza sta per speronare un’altra, perché è chiaro che gli sguardi si stanno per incrociare ed è fisicamente impossibile non entrare in relazione. Per una psicologia che ignoravo invece, a 12 metri dall’entrata in area di barista, calzolaio, vinaio e fruttivendolo, ognuno di loro rientrava in negozio come per evitare un mutuo saluto. Come per non fare accaderlo, per non essere sottoposti al peso di una risposta scontata. Avevo la sensazione che io e mio padre pestassimo per terra, a un certo punto del marciapiedi, qualche bottone invisibile che attivasse un’energia di risucchio dal retrobottega. Arrivati dal pasticcere, sempre dentro a lavorare, buongiorno-buongiorno, si prendeva una pasta allo zabaione e si tornava indietro. Stessa avanzata, stessi rientri.

Con mia madre esperta in pubbliche relazioni, mio padre attore e una geografia di vorticose comunicazioni attorno alla famiglia, iniziai a percepire che esistevano italiani che vivevano nei loro mondi e, lentamente,  che gli italiani vivevano rinchiusi in altri mondi: era la società feudale che avrei teorizzato una volta a New York. Ma mi diedi tempo, continuai ad osservare il fenomeno finché la sua ripetizione negli anni non suggellò il convincimento che quanto avveniva non fosse affatto casuale. Quel giorno avevo 10 anni ed ero deciso a esporre il dubbio a mio padre, ma venendo lui a Roma una volta ogni 12 mesi, non avevo ancora molta dimestichezza con la relazione e non dissi nulla: avrei rimandato la domanda di ben 18 anni.

2. Realizzazione inglese Tuttavia, willy nilly, sviluppai nel tempo e senza sospettarlo la dipendenza da non saluto, e quando mi ritrovai a diciannove anni in vacanza in Inghilterra a Hemel Hempstead ospite dell’allegra brigata Massey (amici d’infanzia di mia madre), mi resi tristemente conto di come la mia più grande preoccupazione esistenziale fosse schivare la slavina mattutina dei “Good morning!” e degli “How did you sleep”. Non dimenticherò mai lo stato d’animo del primo risveglio da ospite. Mi recai in cucina a fare colazione, Simon, mio coetaneo, già seduto per il breakfast, con due fiocchi di granturco incollati ai lati della bocca mi apostrofò un cisposo : “Good morning Manuel, did you sleep well?” Risposi subito “buon giorno” ma tentennai sul seguito, ragionai sul fatto di aver dormito bene, una domanda fuori dall’evoluzione delle mie risposte…“Goodness, it was freaking cold last night!” Carburai un po’ cupo. “Plus it’s Summer, but yes I slept well, I had weird dreams though, you know?…” Mi sedetti, precipitai anch’io qualche conrnflakes nel latte ma fui poco dopo assalito dalla stessa domanda in bocca al fratello minore , che all’altezza del tostapane ripetè con la stessa inflessione: “Good morning Manuel! How did you sleep?” Clonai la risposta già data variandola leggermente verso la fine per non cadere in una scontata ripetizione. Quando mi entrarono entrambi i genitori:”Good morning Manuel!” Proclamò Eleonor .”Did you sleep well?”  Rincarò la dose John con aria inquisitoria. In quel momento Il latte iniziò ad avere un sapore amaro. I cornflakes nel cucchiaio divennero pesanti. “Good morning John,  Good morning Eleonor. I slept very well thank you, it was a lovely night. A very lovely night, thank you so much. And you? How di you sleep ? “ Pensavo di aver finito di scontare una pena sconosciuta, quando a ruota, ricevetti il colpo di grazia. Catherine, la terza figlia, chioma rossa selvaggia e maglione verde fosforescente, mi accoltellò col suo personale “Good morning, how did you sleep?”, ma con un brio che mi imponeva una risposta su misura. Rapida immersione nelle marianne del mio subconsio. Raccolgo il guanto. Emersione e Numero. Per un progressivo desiderio di originalità, onde non suonare banale, la intrattenni per dieci minuti spiegando come avevo passato la notte utilizzando il tappeto di finto orso bianco come seconda coperta, di come stavo quasi per staccare le tende verdi e avvolgermi come un bruco. Risero tutti mentre io facevo finta di divertirmi: in realtà stavo sperando disperatamente che Ben , il quarto fratello, si alzasse tardi o che non si alzasse affatto.

Il giorno dopo, al mio risveglio, tesi bene le orecchie agli spostamenti di passi nella casa, smistando mentalmente i movimenti di animali domestici dallo spantofolio umano, determinato a entrare in cucina solo quando tutti i Massey fossero già a tavola a nuotare tra i cornflakes, per evitare il martirio dei buongiornoaudidiuslip, napalm sui miei timpani. Un buongiorno collettivo sarebbe stato più che sufficiente. Ero forse diventato anch’io uno dei pii negozianti di via dei Pennacchi? Provavo forse lo stesso tipo di imbarazzo?  E se accadeva ciò, quali erano gli underpinnings di una psicologia che aveva timore di un semplice buongiorno? Lo avrei scoperto in Francia solo nove anni dopo.

3. L’epifania francese Ero nuovamente in vacanza, questa volta a Paray le Monial,  in Borgogna. Una mattina mi alzo e vado a fare colazione in un café. Il posto era gremito di ragazzi, prendo un “cappuccino”, un croissant e mi siedo. Arriva una ragazzina di 15-16 anni minuta e insignificante, mi si siede di fronte. Mentre sto per dare la prima mano di burro, sorride prendendomi alla sprovvista: “Bon jour, ça va?” Mi dicono 2 trecce bionde con una dolcezza che non meritavo. I was blown away: fu come se qualcuno mi avesse segnato un rigore da un’altra galassia… Vidi in quel buongiorno il centro della via lattea, sistole e diastole, Carl lewis che sfondava i duecento, il riflesso del lupo di Gubbio negli occhi di Francesco. Mi commossi profondamente: quella ragazzina non aveva detto buongiorno, era lei stessa il mio buon giorno, era la garanzia del mio buon giorno, l’assegno circolare di una giornata che sarebbe andata in porto. Capii dunque come tutti i buongiorno romani fossero stati evirati sia del giorno che del buon. Di come l’augurio per eccellenza, per pigrizia, si fosse assentato da sé sesso. La parola si era smagnetizzata dal suo significato, aveva fatto una crociera nei Caraibi e aveva lasciato il significato a casa a fare la maglia. Un po’ come la mano che ti si struscia sulla testa ma non espelle carezze perché il pensiero sgranchisce altrove i suoi neuroni. Tornai a Roma stupito e provai quel nuovo buongiorno senza che nessuno se ne accorgesse. Cercai di riallinearlo al suo significato senza farlo partire più dalle retrovie di una mia distrazione. Ma il significato si era ormai squantizzato dal termine e un mio buongiorno poteva dire qualsiasi cosa: ci volle del tempo prima che quella parola tornasse a significare tutto.

4. La spiegazione di Rio  Fu però a Rio de Janeiro, lo stesso anno a casa di mio padre, che capii definitivamente come stavano le cose. Era mattino, mi trovavo nel mezzo della mia permanenza in Brasile, quando si iniziano a fare i conti col pensiero del ritorno ma si spera  ancora che  l’incontro della seconda settimana, coltivato bene nella terza, possa sbocciare clamorosamente nella quarta. Quell’eccitazione da sabato del villaggio si agitò nello stagno delle mie memorie facendo riaffiorare un pensiero sepolto. “Sai papà, sin da bambino mi è sempre sembrato che i negozianti di via dei Pennacchi si ritraessero al nostro passaggio, come se avessero paura, non so, di essere obbligati a salutarci. Mi sembra proprio che a Roma la gente faccia fatica a dirti buongiorno. Ma perché?” Dall’altro lato della stanza, seduto su un divano di bambù, fiotti di sole alle spalle, in epica controluce, mio padre mi guardò sorridente con un caffellatte enorme tra le mani e disse.

“Gli eletti salutano per primi”.

(Anthony Steffen)

Manuel de Teffé

P.S. QUESTO ARTICOLO E’ DEDICATO ALLA MIA AMICA ANGELIKA, CHE TORNATA DALL’AFRICA, DOPO UN ESTENUANTE LAVORO NEI CAMPI PROFUGHI KENIOTI, SI DOMANDA DEL PERCHE’ QUI SI FACCIA COSI’ FATICA A SCAMBIARSI UN SEMPLICE BUONGIORNO.

12 thoughts on “Gli eletti salutano per primi: le vertigini di un buongiorno. Come salutarsi offline ai tempi di Faccialibro – Da una società feudale a un’economia di relazione – VII parte

  1. Buongiorno Manuel! non una ironia ma il riconosciumento di un “extraterrestre” che appare all’improvviso in un mondo grigio e triste. Non si saluta perchè si fa fatica a “relazionarsi” è vero, questa mattina scrivevo che dovemmo trasformare il nostro “io” in “noi”…………………..inizierremmo tutti molto meglio “la giornata”

  2. vero. me lo domando sempre anche io. soprattutto quando esci dal tabaccaio salutando con un franco ‘arrivederci’ senza ottenere la benché minima replica. strano risparmiare sul commiato. in fin dei conti è gratis ma, nel mentre, ho formulato la mia teoria per cui, forse, chi snobba gli altri intende in qualche modo dimostrare la propria superiorità. a me pare maleducazione e, quindi, proseguo nel mio intento di sfoderare sorrisi e un intercalare gentile. non sempre ma spesso funziona ed è graficante vedere come la gente, in realtà, abbia bisogno di questa specie di carezza. qui milano. ADV.

  3. Anch’io adotto la stessa filosofia di demoiselle errante. La gente ne ha davvero bisogno…quando lavoravo in bar a Venezia me lo dicevano: “Laura, è bello tornare qui perchè ci sorridi sempre” …basta così poco 😉

  4. Caro Manuel, non ti nascondo che il tuo racconto mi ha messo un pò di malinconia…ti dirò che anche qui, purtroppo è così, salvo un’eccezione: Venezia. Se al mattino ti rechi al lavoro a Venezia o vai a fare delle commissioni, entri in un altro mondo. Non solo le persone che conosci ti salutano dalla barca mentre tu cammini sulla fondamenta (..e se non senti urlano finchè non li saluti!) ma con alcune ti fermi anche a parlare…infatti devi sempre calcolare 15 minuti in più per essere puntuale 😉 Ma questa è un’altra dimensione, unica. Solo Venezia è così: per questo l’adoro.

  5. sarebbe bello, a questo punto, aprire un sondaggio: in quale città si saluta e in quale no.
    roma – milano, per ora, no. venezia si. il risultato potrebbe affiancare altri indicatori per misurare la qualità della vita in città. di solito non si include per stilare classifiche ma in italia forse sarebbe il caso di farlo. è un pezzo che ragiono sull’utilizzo di questo semplicissimo gesto in grado di raccontare tanto sulla psicologia di una civiltà. NB oggi sorrido anche sotto la pioggia. atto estremo di sfida quando ci sarebbero tutti gli alibi per non farlo. e invece no. tiè. sempre milano. ADV

  6. Bella l’idea del sondaggio…ma secondo me è fondamentale differenziare la tipologia di città; non si può paragonare Venezia a Milano…per dirla meglio: non si può paragonare Venezia a nessun altra città perchè è unica nel suo genere. Poi la differenza la fa anche il numero di abitanti…per esempio, già in un paese di 30mila abitanti dove vivo io, si saluta ancora con calore e umanità…il sondaggio si potrebbe fare nei capoluoghi di regione e in qualche altra città con all’incirca lo stesso numero di abitanti…

  7. Caro Manuel, sapessi allora come NON salutano i comaschi… Anni fa, ho vissuto a Como per 10 mesi e posso dirti solo, che per scambiare un saluto, andavo in chiesa ad assistere alla messa per approfittare del momento in cui il prete diceva: “scambiatevi un segno di pace” e allora miracolo! ci si stringeva la mano con gli altri attorno… 🙂 Nei bara, più di un grugnito in risposta al mio saluto, non ricordo di aver sentito. Ma forse 10 mesi in quelle zone sono troppi pochi per meritare la fiducia di un sorriso e un buongiorno ad alta voce… chi sa?

  8. Allora, per comminciare – grazie, Manuel, per dedicare quest’articolo a me. Ho letto tutti i commentari e ora, vorrei trasferirmi a Venezia! Non sapevo che è una città così unica nel senso che discutiamo qui. Anch’io adotto la filosofia di demoiselle errante, é l’unica cosa che funziona. E’ la reazione della gente è sempre una sorpresa! A volte sorride, a volte non reagisce per niente ma la maggioranza reagisce positivamente. Sarebbe interessante di farlo un sondaggio in tutto il mondo. Sono sicura che gli Italiani siano molto meglio nel salutarsi che i Tedeschi! Qui in Germania abbiamo un giornalista che, tornata dall’Africa dopo 13 anni (due anni fa è tornata in Africa ancora ;-)), ha scritto sulle sue impressioni della Germania. La gente non si saluta, nessuno sorride, non sono gentile, nessuno chiacchera…Ha trovato una parola unica per descrivere ‘espressione sul viso della gente: Regenverdrussgesicht (letteralmente: pioggia – fastidio – viso) Significa praticamente che non é mai gentile, sorridente etc. e dopo qualche mese si é spaventato perché aveva la stessa espressione nel suo viso. Certamente, con la filosofia di demoiselle errante, questo non capiterà. (Scusate il mio italiano!) Angelika

  9. Ciao Manuel, Bello rincontrarti al volo dopo tanti anni… Tuo padre era un grande a dire che gli eletti salutano per primi e sono contento che ieri ci siamo salutati per primi…
    Prendiamoci un caffè in settimana…
    Ciao da Ascanio.

  10. Buongiorno Manuel (e telo dico di cuore)
    questo tuo articolo mi ha commosso. Ammiro profondamente le persone che, come te, sono in grado di portare alla luce alcuni dubbi, alcune sensazioni, alcune domande che probabilmente si celano dentro molti di noi senza che ne abbiamo una precisa consapevolezza. Io apprendo dalla vita, ma spesso non sono in grado di descrivere i miei processi evolutivi (o involutivi) con la stessa lucidità che dimostri tu. E’ importante avere qualcuno in cui specchiarsi e fermarsi a riflettere, anche solo per pochi istanti. Quindi grazie ancora e ti abbraccio con un sorriso 🙂

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