“C’era una volta a Roma”: Gli ANNI DELLA DOLCE VITA TRAVOLTI DALL’EPOPEA DEL WESTERN ALL’ITALIANA

Sono felice e commosso di poter annunciare l’imminente uscita del mio romanzo: “C’era una volta a Roma”, opera basata su una pagina di costume italiano mai narrata e adesso presentata, per la prima volta, in tutta la sua leggendaria impertinenza: i surreali anni in cui, come industria, noi italiani siamo entrati a gamba tesa nella narrativa americana iniziando a produrre film western con piglio garibaldino, come se non ci fosse un domani. Un po’ come se gli eschimesi si intestassero per un decennio la Pizza Margherita con struggente nonchalance.

Come depositario di un’epopea che vide Dolce Vita tingersi di West, ho deciso in questi ultimi due anni di domare una tempesta di ricordi impetuosi legati a questa follia: il western all’italiana, universalmente noto col marchio DOC di “Spaghetti Western”.

“C’era una volta a Roma” è un romanzo ispirato alle vicende artistiche e familiari di mio padre, Antonio de Teffé von Hoonholtz, attore romano di origine prussiana che, letteralmente a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, fu protagonista di ben 27 film western con il nome d’arte di Anthony Steffen. Django il bastardo, Pochi dollari per Django, Sette Dollari sul Rosso, Arriva Sabata, Apocalisse Joe e Un treno per Durango, sono alcuni tra i suoi titoli più celebri.
Nel Settembre del 2007, durante la retrospettiva organizzata da Quentin Tarantino al Festival di Venezia su questo genere, ebbi l’onore di presentare al pubblico Una lunga fila di croci del regista Sergio Garrone, presente in sala, e vedere per la prima volta mio padre sul grande schermo. Ammirare per la prima volta questo artista al cinema. Da quel momento, iniziai lentamente a rimettere insieme uno stormo di memorie fantasmagoriche legate alla nascita di questo filone cinematografico.

“C’era una volta a Roma” narra di un mondo che ho ricevuto in eredità: la Roma del 1965, la rivoluzione dello spaghetti western calata nella Dolce Vita, gli incredibili personaggi orbitanti attorno a quel periodo. Tutto ciò che ho visto, sentito, respirato e intuito sin da bambino, è qui, dentro questo libro. Tutti gli incontri ed avvenimenti più recenti della mia vita mi indicavano che dovevo iniziare a ricomporre quel mosaico inverosimile, che dovevo iniziare a svuotare il sacco… E allora, come ammonisce John Ford nel suo inequivocabile “PRINT THE LEGEND!” sul finale di The Man Who Killed Liberty Valance, ho deciso di sedermi, scrivere la leggenda e darla alle stampe. 

Ringrazio l’editore Michele Caccamo, che con la sua Readaction Editrice Roma ha creduto al libro a scatola chiusa su mio pitch telegrafico telefonico. I grandi maestri Enzo Castellari e Sergio Garrone, il mitico Terence Hill, e l’intramontabile Gianni Garko, i primissimi che ho fatto partecipi della storia e a palesarmi il loro entusiasmo. L’amico Andrea Girolami che, con le sue rassegne cinematografiche, mi ha fatto rivivere il sogno. Non stavo nella pelle, prima di iniziare l’avventura ho ritenuto di buon auspicio raccontarla subito ai protagonisti di quel tempo per una sorta di tributo affettuoso, per mettere al corrente “tutta la famiglia western” di un avvenimento in fieri, per avere la loro “benedizione”. Non dimenticherò mai le parole di Enzo Castellari (che mia ha anche regalato la postfazione del romanzo) quando, brillante e serissimo, ringiovanito davanti ai miei occhi di 50 anni dell’entusiasmo, esclamò: “… È la storia che tutti stanno aspettando!”

La storia? Eccola!

Siamo nella Roma del 1965, quando Roma era più grande di tutti gli anni ’60 messi insieme. Nel pieno della Dolce Vita e delle proteste contro la guerra in Vietnam. Per un Pugno di Dollari di Sergio Leone ha appena avuto un successo planetario e lancia un genere esplosivo: IL WESTERN ALL’ITALIANA. Il mondo del cinema è in fibrillazione: tutti vogliono salire sul carro del vincitore costruito dal regista romano… Sorgono, come funghi, improbabili case di produzione tutte desiderose di cimentarsi nella nuova moda; tra queste, la più scalpitante è “La 13 Maggio Cinematografica Srl”, ma anche un consorzio di lattai della Magliana non è da meno, con la sua pericolosissima “Chaos film”. La public relation manager dell’Hotel Hilton studia i mercati e cerca di convincere il suo uomo ad abbracciare il nuovo filone.
“C’era una volta a Roma” intreccia le vicende di un aristocratico attore teatrale shakespeariano che snobba il cinema da troppo tempo, di un guru della recitazione russa, un regista ebreo narcolettico e un anziano imprenditore con un ultimo grande sogno, quello di trasformare, prima di morire, il suo scombiccherato manoscritto nel western: “NIENTE DOLLARI PER DJANGO”.
Messi insieme dal destino grazie a una promessa perfetta, un tributo segreto sotto forma di film e un’irresistibile preghiera di abbandono, questi bizzarri individui iniziano a procedere imperterriti come le ferrovie della Union Pacific in costruzione verso la meta comune: la frontiera WEST in Almeria, il deserto spagnolo eletto a set universale dopo il capolavoro di Leone.

“Anto’, qui li vogliono zozzi e cattivi, tu che c’azzecchi col pistolero selvaggio?” Domanda l’agente infingardo al meno cinematografico dei suoi attori in scuderia, il barone Antonio de Teffé, tentando i tutti i modi di dissuadere il colto teatrante dal partecipare ai famigerati “provini per cowboy”. Di fatto mio padre, prima di divenire Anthony Steffen, visse una vera e propria odissea… nessuno, ma proprio nessuno, lo riteneva adatto a quel tipo di ruolo così “realista”, e a ragione… Allontanato da Sergio Leone, scartato ovunque per la sua postura troppo sofisticata e un taglio attoriale smaccatamente accademico, questo “dandy romano” alto un metro e novanta sembrava non avere niente a che spartire col mondo spietato dei rudi pistoleri americani… Finché un giorno, su stratagemma di mia madre, lo scapolone dei Parioli si fece scattare una grintosa foto in bianco e nero e la spedì a 50 produzioni capitoline con i francobolli dello Stato del Vaticano. Dietro la foto, un nome altisonante battuto a macchina su un’etichetta color panna:

ANTHONY STEFFEN – Actor –
Momentarily in Rome.
Represented exclusively by Tonya Lemons,
Hotel Hilton – Rome

Siamo nel 1965, ancora non c’è internet e di fact checker neanche l’ombra: quando i romani estrassero dalle giganti buste papali il volto grintoso di un uomo durissimo sotto uno Stetson a falde larghe e lessero il nome di un americano “momentaneamente” a Roma, si mobilitarono in massa per accaparrarsi quello che credettero una star d’oltreoceano a zonzo nell’ Urbe. E Antonio, che parlava un inglese da manuale, vinse finalmente il primo provino!

Francamente, non prevedevo di scrivere questo libro, non era in programma, è un romanzo letteralmente esplosomi dal cuore… un pezzo di cuore saltato su un pezzo di carta… 500 pagine che dopo aver consegnato, mi hanno visto steso su una poltrona a fissare per ore oltre la vetrata in salotto un punto imprecisato all’orizzonte, ansimante, senza nessuna espressione. Fino all’arrivo di una telefonata dal Sud Africa in cui l’inossidabile Corrado Passi, sensibilissimo scrittore e pilastro di Readaction editrice Roma, dopo un’ora in cui mi ripresentava, uno ad uno, tutti i personaggi dei mie 22 capitoli, mi dichiarò: “…Hai dato tutto”. Decreto che echeggia ancora nel salotto, come coccarda volante, dopo un anno e mezzo di scrittura non stop. Perché era vero. Perché non era un libro in programma, ma era un programma che mi aspettava al varco da troppo tempo e che è detonato in un momento impensabile, che guarda caso è stato proprio il momento opportuno.

Prima del covid, stavo lavorando con il produttore Carlo Macchitella a un film western da me scritto dal titolo “Django begins”. Ecco ciò a cui stavo veramente lavorando. Ricordo ancora che il buon Carlo ogni volta che arrivavo in produzione, alla sua Madeleine, mi faceva sedere al posto di comando, dietro la sua scrivania, per godersi la mia storia sdraiato sul divano… “La dobbiamo raccontare! La dobbiamo raccontare! Ma quanto ci costa! Quanto ci costerà?!” preoccupatissimo per gli investimenti già in atto sul suo film Diabolik… Insieme, alla fine non abbiamo raccontato più nulla, perché la pandemia ha messo tutto in attesa e Carlo è volato via troppo presto… Mi ricordo il suo entusiasmo e lo ringrazio per la sua gioia, per averci creduto per primo.

Così, con un film in stand by, paralizzato da lockdown planetari ma saturo di anni ’60, Dolce Vita e duelli assolati in Almeria, vedo aprirsi davanti a me una provvidenziale oasi artistica sconfinata, humus perfetto per far brillare una storia mai narrata, un decennio del costume italiano che ancora nessuno aveva narrativamente abbracciato comme il faut.

C’era una volta a Roma un attore quarantenne, che all’apice del suo sfolgorante anonimato di inutili successi teatrali, senza una lire in tasca ma con una donna che lo amava più di se stessa, dovette reinventarsi da una camera ammobiliata dei Parioli, per passare da Amleto a Django il bastardo, da Godot a Killer Kid, da Macbeth a Sabata. Un artista che mise addirittura in discussione tutta la sua formazione accademica, studiando il metodo Stanislawski con un guru di recitazione russa per risultare credibile al cinema… L’odissea di come Antonio de Teffé divenne Anthony Steffen si pone, in una timeline ideale, esattamente 4 anni prima “C’era Una Volta a Hollywood” di Quentin Tarantino, prima del dialogo in cui Brad Pitt invita Di Caprio ad andare a Roma per tentare una nuova carriera nel western italiano… Di Caprio non ne vuole sapere, questa cosa degli spaghetti western pensa sia tutta una grande farsa… “C’mon now. You ever seen an Italian western? They’re awful”. Ma Pitt controbatte: “Yeah. How many you’ve seen? One? Two?”, facendogli capire che in Italia sta accadendo qualcosa di grandioso… qualcosa da non disdegnare, che magari lo avrebbe anche rilanciato.

E già, perché negli anni ’60 siamo stati un’industria micidiale e davamo giri di pista a tutti. Perché abbiamo fatto squadra come in nessun’altra epoca, umanamente e professionalmente. C’era una volta a Roma e ci sarà, speriamo di nuovo! Buon 1965 a tutti, buon viaggio attraverso uno dei periodi più entusiasmanti, surreali e creativi della nostra storia italiana, romana, cinematografica e non solo, che vide la Dolce Vita travolta dalla rivoluzione dello spaghetti western. Perché questo romanzo é in realtà una rocambolesca storia d’amore corale che galoppa a spron battuto in tutte le direzioni e che non vede l’ora di trasformarsi in film… dal film che già è… Ci vediamo a Giugno in libreria!

P.S. Chi volesse una copia per primo con la firma dell’autore, mi scriva a manuel.deteffe@me.com

Manuel de Teffé
Writer-Director

Rapina in banca con papà – La storia (vera) dell’attore che mise in crisi il sistema bancario.

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Antonio de Teffé in una foto di Manuel de Teffé


L’ORA PRIMA DELLA RAPINA 

“Let your plans be dark and impenetrable as night, and when you move, fall like a thunderbolt.” Esordì il papà attore in perfetta pronuncia british al telefono, poi il silenzio e il soffio delle sue narici sulla cornetta.

Quella mattina stavo ricurvo sulle  ginocchia e i miei sedicianni appena scartati, aprendo felicissimo una pellicola Ilford 400 iso in bianco e nero pronto a caricare la mia nuova Dana 120, quando mi arrivò la telefonata di mio padre che mi svoltò l’estate. Dopo il solito incipit da “l’Arte della guerra” di Sun Tzu che sostituiva da tempo i suoi buongiorno, continuò così: “Manuel, preparati, papà  passa a prenderti alle 10:30. Andiamo a rapinare una banca. Vestiti bene e niente ciuffi selvaggi.”  Poi  una pausa e l’attesa del suo respiro sulla cornetta che mi arrivava come il rantolo di un vento alieno sul deserto del Gobi. In un angolo del salotto mia madre stava dipingendo un quadro astratto con delle bombolette spray fumando una marlboro rossa, accanto a lei mio fratello piccolo si spupazzava beato Donkey Kong Junior su un mini Nintendo.

 Mio padre aspettò incuriosito una mia reazione che tardò a venire, perché per lo stordimento emotivo, nella mia mente  i termini “rapina” e “ciuffi” figliavano combinazioni caleidoscopiche di significati inutili che stavo vagliando con sospettosa flemma: rapinare ciuffi , pettinare banche, la rapina dei pettini, il ciuffo vendicatore… La banca?  Cosa vorrà esattamente dire papà? Diedi un sorso al mio lattefreddomacchiato e rimasi in ascolto ricurvo sulla macchina fotografica aperta, mentre il suo respiro scrutatore mi drammatizzava l’attimo soffiando dalle narici sui buchi della cornetta. Da una parte Darth Vader che sibilava oscuro dal  Fleming,  dall’altra parte della stanza una madre che intuiva tutto attraverso la nube di una marlboro rossa che si innalzava da dietro un quadro. Non sapevo cosa dire e mi sentivo sotto osservazione,  quel  rantolo di vento naricioso paterno sulla cornetta mi stava interpellando. L’iride di mamma velato di fumo  fece capolino dal perimetro ovest della tela. L’occhiata sincrona e cisposa di mio fratello incuriosito. L’ultimo pezzo di torta mimosa sul tavolo.

“Ti sei perso nei tuoi pensieri, vero? Ma adesso papino tuo ti stana e ti mostra come si piega il Banco di Roma. Oggi. Lo mettiamo insieme in ginocchio.  Noi due.  Sarai mio complice. Ci stai?”

“Ok.”  Vagheggiai atono per non destare l’attenzione di nessuno.

“Bene! Mi piace quando  mi dai la risposta giusta senza pensarci. Vestiti bene e niente maglioni ciancicati con le toppe.  Il mio ciancicone.”

“Va bene, papà.” 

“Let your plans be dark and impenetrable as night, and when you move, fall like a thunderbolt.” Ripeté assaporandosi la sua nuova massima preferita di Sun Tzu, stavolta in perfetto inglese americano,  sempre sotto il torchio del suo perfezionismo attoriale stile Strasberg. “Like a Thunder…”   

Attaccai il telefono e finii di caricare la macchina fotografica. Mia madre sicilianamente non mi fece nessuna domanda e io la fissai senza darle romanamente nessuna risposta. Ora, io di banche non ne avevo ancora  rapinate, ma detta da mio padre, la cosa aveva i suoi misteriosi margini di fattibilità. Corsi in bagno, provai a piegare la vertigine bionda che si ergeva da dietro i capelli come una rondine  impazzita e con una manata bagnata la abbattei con rigore.  Chiusi la porta della mia stanza per contenere l’invasione dei pensieri tentacolari di mamma e mi immersi nel completo blu “Eredi Pisanò” che  mi  aveva comprato per il mio ingresso in società qualche mese prima: era la mia seconda occasione di sfoggiarlo, avevo appena compiuto sedici anni ed ero ancora l’unico tra la mia cerchia di amici che aveva i genitori separati, cosa di cui non mi resi mai conto  grazie all’iperbolicità di entrambi, due fuoriclasse assoluti nei rispettivi campi. Fino a quel momento le mie gioie erano due, disegnare con i Caran D’ache e fotografare con la Polaroid. La Dana 120, regalo di mia madre, era un grande passo in avanti, ma mai avrei immaginato che una rapina in banca in pieno giorno si sarebbe frapposta tra quei due bastioni artistici regalandomi una masterclass indimenticabile di vita reale. Ritornai dalla pittrice fumante che rimase perplessa dalla mia tenuta regale.

“Dove vai così elegante? ” 

“Vado a rapinare una banca con papà”. 

“In pieno giorno?  Mettiti i gemelli. Farai un figurone. Quando rapini una banca ci  si da’ un tono.”

“Sì lo so. Li ho già messi. Guarda.”

Mia madre, che  assecondava l’imperscrutabile e non indagava mai su nulla perchè si aspettava sempre da me un primo passo che puntuale non arrivava mai, si caricò dignitosamente l’ennesimo mistero sulle spalle e tornò al suo dipinto astratto scuotendo la bomboletta spray per troppo tempo. Io agguantai la Dana, qualche scatto a vuoto e la salutai. Se nella vita ho sviluppato un sesto senso lo devo proprio a quei momenti di maestose incomunicabilità elettive dei quali non ne rinnego uno.

Alle 10:30 scesi solerte senza aspettare il citofono, mio padre mi stava già aspettando di profilo nella sua Alfa coupé.  Appena mi vide con la coda dell’occhio si levò gli occhiali da sole e  li infilò in un’asola.  “Bravo.” Chiosò raggiante quando entrai. Poi mise in moto e mi recitò il monologo di Antonio dal “Giulio Cesare” di Shakespeare. “Amici, romani, concittadini…Prestatemi orecchio…”  Il bardo gli dava una forza ancestrale, lo caricava  a molla, lo resucitava. Ripeté il monologo con devozione e in varie tonalità, finchè non posteggiammo vicino alla banca. Poi, come al suo solito, biascicò a mezzaria qualcosa di in una lingua sconosciuta e mi spiegò come stavano le cose, gli occhi  trionfanti.

“Ascolta ciancicone. Però bello questo completo, bravo. E brava mamma… Lo ammetto. Antonella ha sempre avuto gusto. Dunque, a papà tuo tempo fa gli hanno spedito 3 milioni dal Brasile. I dindini non sono ancora arrivati ma ho tutti i documenti della spedizione. Apri il cruscotto, guarda. Ancora non lo puoi capire ma la banca sta giocando con i miei soldi, li trattiene e ci marcia. Ma adesso papino tuo se li riprende tutti. Ora. Insieme a te. E non ti mettere paura di ciò che vedrai, assecondami e basta. Ok?”

“OK”. E fu così che entrammo, io ignaro ed elegantissimo, con una macchina fotografica desueta al guinzaglio,  lui  un panzerdivision con gli spiriti di Giulio Cesare e Macbeth che gli srotolavano tappeti rossi mentre incedeva raggiante. Si tolse i Rayban e puntò l’impiegato che masticava una gomma americana.

LA RAPINA 

“Buongiorno buon uomo, conto XYvattelapesca”.  Intonò papà al  tizio allo sportello. “Sono qui per la quarta volta  e vorrei sapere se il bonifico da Rio de Janeiro partito un mese fa in gran spolvero da Copacabana è arrivato o si è perso in qualche Casinò di Montecarlo.”

“Buongiorno signor Steffen, certo! Controlliamo subito…Teffé. Mi Scusi. Qui:  ecco… XYVATTELAPESCA. No, mi dispiace molto… vedo… cioè sono desolato ma non vedo nulla. Ma lei è sicuro che sono partiti?”  

Mio padre socchiuse la bocca senza parlare, fece un primo movimento di labbra a tradimento senza emettere suono e bofonchiò qualcosa tra sé e sé alzando le sopracciglia e scuotendo la testa. Poi, con occhi malandrini e luccicanti, inarcò il suo metro e novanta sull’impiegato e sussurrò con l’aria più complice possibile “Ma lei è sicuro di non vedere nulla?”  L’opaco cassiere sbiancò e rise infingardo.

“Cosa vuole dire dottore? No guardi, non è arrivato nulla. Può accadere… le assicuro. Ma la posso chiamare direttamente io quando arrivano in filiale. Non si deve preoccupare, possiamo monitorare.” “Amico mio…Incalzò papà alzando lo guardo sopra la testa dell’impiegato mettendo a fuoco un punto più lontano della banca. “Sono venuto in questa filiale già 3 volte in questo mese, i mie soldi sono partiti quattro settimane fa e inizio ad avere un’età. Mi faccia parlare subito col direttore”.

“Ma Certo dottore, solo un attimo!”   L’impiegato si allontanò verso il fondo della banca, parlò rimanendo sull’uscio di una porta aperta in lontananza e fece ceno di avvicinarci.

Quando entrammo nel grande ufficio del direttore del Banco di Roma, rimasi subito stupito per lo zelo scattante dell’omino in maglioncino blu che si inchinò di fronte a noi. “Che onore signor de Teffé , benvenuto… Cosa posso fare per lei? Questo è suo figlio immagino, molto piacere. Come si chiama?  Bene, spero sarai anche tu un giorno nostro cliente. Come posso servirla dottore? Siamo qui per lei”.

“Vede direttore… un mese fa da Rio de Janeiro è partito un bonifico di 3 milioni diretto a questo conto. Ma  ancora, per qualche motivo intellegibile, non è arrivato. Dove sarà secondo lei ?”

“Beh, signor de Teffè… Io, se le hanno detto così mi dispiace veramente, non so cosa potrei fare, … Sicuramente deve aspettare ancora un pochino. Deve portare pazienza. Ma è sicuro comunque che glieli hanno spediti?”

“Come le tasse in Cornovaglia. Ecco i documenti, direttore. Dopo mi può dare un ‘occhiatina anche sul suo terminale?”

“Certo, mi faccia controllare… Le tasse in Cornovaglia… He! He! He!… Voi attori… Mi faccia vedere… Sì effettivamente sono partiti. Mi ripete il suo conto? Verifico personalmente. XYVATTELAPESCA. Grazie, ecco, no. Ancora nulla… No… Guardi non è arrivato nulla. Io le consiglio, se i soldi sono stati spediti 4 settimane fa… di riparlare con la banca di Rio”.

I dialoghi gentili continuarono per qualche minuto ma dopo l’ennesimo diniego circostanziato del direttore in maglione, vidi la prima cosa che mi inquietò profondamente nella vita: mio padre  corrugò la fronte e  allungò il braccio sulla grande scrivania di mogano con studiata lentezza, mise la sua grande mano su un posacenere verde smeraldo e lo alzò in slow motion,  inclinando  il volto ad altezza bordo tavolo come per scrutare sotto l’oggetto. Poi, occhi a fessura,  allungò  progressivamente il collo verso l’ombra del  posacenere per vedere  meglio. Il direttore sbiancò in viso.  La mia vertigine bionda si erse come le penne di un capo sioux prima della battaglia. “Cosa sto facendo signor  Teffé? “ Domandò il direttore dissimulando un terrore in fieri.

Mio padre scosse la testa, senza guardarlo, rimanendo in posizione. “Sto controllando se magari  i miei soldi sono sono sotto questo posacenere… Non si può mai dire, direttore. Ma no,  sotto a questo posacenere vedo che non ci sono….no. Nzù, zù, zù.  Mmmmm… Ma da qualche parte devono pure essere. Vero Manuel? Vediamo un po.'” 

Il direttore emise dei risolini insipidi per esorcizzare la situazione, quando papà portò veloce l’indice alle labbra come a intimargli un silenzio foriero di una grande idea, “Sss…”  E guizzò in piedi andando di falcata maggiore a scostare una grande stampa di Roma dall’altra parte dell ‘ufficio. “Vediamo se sono dietro questo Piranesi…Un grande il Piranesi! Immenso artista. Ecco… No… No… Non sono neanche dietro a questo quadro. Ma dove saranno finiti i mei soldi? Non bisogna mai disperare però… Continuiamo a cercare, Manuel.”

Il direttore mi guardò, io che non mi stavo affatto muovendo, abbassai gli occhi sulla Dana per poi voltarmi velocemente verso papà che stava squadrando l’ufficio da destra a sinistra, spettrale. L’omino in maglione blu timidamente preoccupato. “… Cosa sta facendo dottore, se posso chiederle?…” “Sto cercando i miei soldi, direttore. Da qualche parte devono pur essere!” Il direttore, che sino a quel momento non aveva staccato gli occhi dall’attore, fiutò il pericolo e sparì dietro il grande monitor Olivetti iniziando a battere sui tasti del computer, mani a tarantola impazzita.

“Ah!  Magari sono sotto al tappeto!” Riprese mio padre con entusiasmo. “Sotto il tappetto…” Sussurrò  fissando il persiano vicino la scrivania con il solito cambio tonale al quale ero abituato. Il rumore dei tasti del computer del direttore sempre più serrato. “Manuel mi dai una mano?  Grazie piccolo Lord.  Non sembra Little Lord Fontleroy mio figlio in questo Eredi Pisanò, direttore? Arrotola bene…Così… No… neanche sotto al persiano. Peccato. Grazie Manuel. Ma forse chissà direttore, forse sono sotto il divano… Nzù, zù, zù. Neppure qui. Che strano. Ma dove si saranno cacciati? Magari dietro? Può essere.”

Mentre Il direttre continuava a lavorare a non so cosa e io mi rialzavo per rimettere a posto il tappetto e ingannare il tempo, mio padre con sforzo erculeo prese un’estremità del grande divano di cuoio e iniziò a scostarlo dalla parete con tre forti strattoni.

“Ecco… No…non sono neanche qui. Dietro il divano nulla. Ma dove saranno, direttore?  Nella libreria? In un volume della Treccani? Nel decimo? No. Nell’undicesimo? Neanche.  Eureka!  Il portaombrelli! Ma certo! E’ il luogo più sicuro dove mettere dei soldi, nessuno potrebbe mai immaginarlo. E se fossero lì, io ne sarei proprio felice direttore,  perché è il luogo più improbabile e dunque adattissimo. Andiamo a vedere”.   

Poi il capolavoro attoriale: papà, si mise in ginocchio vicino al protaombrelli, li scostò  e ci mise dentro la testa come uno struzzo, senza muoversi più. “Manuel! Manuel!”  La sua voce  rimbombava nel cilindro di metallo, io non avevo più il coraggio di voltarmi, gli occhi bassi sulla scrivania del direttore che con una paresi di sorriso batteva i tasti ed emetteva strani suoni con la bocca per continuare a comunicare con noi in qualche modo.

“Hai per caso una torcia Manuel? Un fiammifero? Qui è tutto buio.” La mia macchina fotografica stava per esplodermi tra le mani, due lucciconi in agguato.

“Una pietra focaia! Non mi dire che non hai neanche una pietra focaia!”

Morii. Poi il colpo di scena.

“Signor de Teffé, ho trovato i suoi soldi!” Esclamò  il direttore  con un aureola rotante sulla testa e il viso livido e paonazzo. Mio padre estrasse elegantemente la testa dal portaombrelli, due solenni falcate e tornò al suo posto assumendo un aria genuinamente meravigliata, un altro capolavoro indimenticabile di espressione. “Davvero? Dov’erano?”  “Erano… erano qui signor de Teffé… cioè, erano arrivati ma… per una procedura interna di smistamenti paralleli e reciprocità selettive avevamo discontinuato le congiunture estere di liquidità immediata e il suo bonifico era rimasto in stand by in un insterstizio di smistamento profilattico in fase di double ceck tra Honolulu e Miami per la green light.”

“Ah.” Emise papà compunto al punto giusto, corrugando la fronte per dare l’impressione di seguire meglio la spiegazione. Il direttore apprezzò e si sentì leggittimato a continuare la farsa.

“…Solo io con una password personale esecutiva ho potuto verificare la partenza del vostro danaro e rintracciarlo. Sono costernato. Comunque li abbiamo disimp… Li abbiamo trovati! Il bonifico è partito ma tecnicamente non è ancora arrivato, però la banca glieli può anticipare in misura del tutto eccezionale per l’affetto che nutriamo per lei come cliente premium e comunque a prescindere. Le erogo io stesso tutta la liquidità, mi segua signor  de Teffé.”   

Poco dopo il direttore infilò 3 milioni di lire in una busta color avorio e li porse a mio padre con le più sentite scuse del CDA del Banco di Roma e di tutti i direttori passati presenti e futuri. Mio padre accettò le scuse con umiltà e glissò andando a sfregare senza permesso il maglioncino blu del direttore per saggiarne la consistenza. Like a thunder. “Cashmere?” Domandò inseguendo un  pensiero originale. “No. Ma sembra! Vero? E’ uno Schostal signor Steffen. L’ho preso la settimana scorsa, per essere più agile in ufficio.” “A quanto?” Domandò mio padre seriamente incuriosito. “Circa 500 mila lire signor Steffen. Ma ne è valsa la pena, vero?” “Bellissimo”. Lo leggettimò infine in quella mise inadatta  gratificandolo a vita. Poi si salutarono come gradi amici.

DOPO LA RAPINA

Papà si fermò fuori la banca, imponente, sprimacciò la tasca del suo giubotto di daino rigonfia di banconote fresche e mi fissò senza espressione. Gli chiesi subito di posare per una foto: fece automaticamente qualche passo laterale, si tolse il giubotto, slacciò un bottone della camicia e ruotò sapientemente il busto di tre quarti tenendosi i polsi.  “Shostal.”  Lo sentii biascicare pregustandosi qualcosa di misterioso mentre io mi preparavo a scattare la mia prima foto in bianco e nero. 1/50 F5,7  e passò la paura.

Entrammo in macchina trionfanti, entrambi col sorriso stampato sulle labbra, papà si rimise i rayban, mi allungò un centone e mise in moto riprendendo il monologo di Antonio come se niente fosse.  Al semaforo, sotto il ponte di Corso Francia, interruppe bruscamente Shakespeare e sfidò ancora una volta il mio Status Quo seguendo il filo di un pensiero nuovo. Mi guardò solenne, abbassò la mia vertigine selvaggia con una carezza paterna e pervaso da infinita dolcezza, quasi commosso, mi disse: “Shostal, Manuel. Domani romperemo i coglioni a Schostal.” Poi mi descrisse la strategia nei minimi dettagli.  “Lo faremo insieme. Hanno prezzi fuori mercato e si danno arie di grandi negozianti. Sai cosa fa papà? Chiederò un maglione color prugna. Ovviamente non possono avere questo colore, Manuel… Ma io gli spieghero’ che in Brasile la prugna va per la maggiore e che a Rio è l’ultimo grido, così  li metto in soggezione. Allora mi faranno vedere subito un maglioncino di tinta secondo loro vicino alla prugna. Dopodiché chiederò uno sconto. Mi daranno lo sconto. Ma poi decido di non comprare nulla perchè in realtà ripiegare su colori non alla moda per avere un risparmio della micragna è un lurido gesto da perdenti.  Margini ridotti e senso di colpa. Are you in?”        

“Come le tasse in Cornovaglia.”  

Papà si inorgoglì sommessamente di una delle sue risposte evergreen in bocca al figlio, annuì appagato e diede di gas inseguendo altri pensieri, più veloce dei suoi stessi pensieri, imbastendo mentalmente lo show dell’indomani nel negozio Schostal di via Cola di Rienzo. A fine corsa, tra un pensiero a Strasberg e uno a Sun Tzu, gli scappò anche un sorprendente “Buon compleanno!”.

Like a thunder.

Manuel de Teffé

Director/Writer

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Racconto di Manuel de Teffé pubblicato su “L’Italiano”

Rapina in banca con papà – pdf da “L’Italiano”

TG2 Storie: La mia intervista per il lancio del Blu Ray-libro su Anthony Steffen

Il 23 Novembre è andata in onda su Raidue all’interno di “TG2 Storie” la mia intervista per il lancio di “W Django”,  curata dal giornalista  Adriano Monti Buzzetti. Rai Due ha realizzato un ottimo servizio: cinque minuti di pura sintesi narrativa. Eccoli a voi, Continue reading “TG2 Storie: La mia intervista per il lancio del Blu Ray-libro su Anthony Steffen”

Il nostro Blu Ray al Tg2

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Manuel de Teffé intervistato da Adriano Monti Buzzetti

Un grazie speciale ad Adriano Monti  Buzzetti della redazione culturale del  TG2 RAI per l’eccezionale  intervista che mi ha dedicato per il Blu Ray tributo di “W Django!”. “Eccezionale” nell’accezione esatta del termine, perché ha spaziato dalla storia di famiglia a “Anthony Steffen”,  fino ai progetti futuri. Rimango sempre piuttosto stupito quando un giornalista ASCOLTA, ossia quando non pensa alla preparazione della domanda successiva ma interloquisce curioso insieme a te… Allora hai improvvisamente la sensazione di raccontare una storia a un amico, e in quel momento cambia tutto e si aprono scenari conversazione vera. Questa l’essenza del giornalismo, scavare nella superficie e arrivare al core.

Manuel de Teffé

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Manuel de Teffé, un cameraman di Rai due e il giornalista Adriano Monte Buzzetti

 

 

QUANDO QUENTIN TARANTINO MI PRESENTÒ MIO PADRE: Il primo tributo a Anthony Steffen, RE del western europeo

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Fu grazie a Quentin Tarantino  che  potei apprezzare per la prima volta mio padre come Anthony Steffen sul grande schermo,  nel Settembre del 2007, quando fui invitato al Festival di Venezia per presentare Una lunga fila di Croci” di Sergio Garrone, durante una speciale retrospettiva western che il regista e scrittore americano aveva voluto per spararci in un sol colpo tutte le sue opere più amate del genere.

Antonio de Teffé, in arte Anthony Steffen, re indiscusso ma quasi dimenticato del cinema western europeo con ben 27 titoli da protagonista assoluto, era morto qualche anno prima, a Rio de Janeiro, abbattuto da un male assurdo, attorniato da una solitudine  spettacolare, quel tipo di sipario che  spesso cala come contrappasso redentivo su coloro che hanno battuto troppo i pezzi alla gloria del mondo per poi passare con affettata disinvoltura al lato oscuro.

Tarantino aveva ristabilito a Venezia Anthony Steffen tra gli indimenticabili, lo aveva prepotentemente strappato a una critica che lo aveva offeso,  deluso e troppo ridimensionato agli occhi del pubblico, perché artista non impegnato negli anni dell’impegno assoluto, e lo aveva adagiato su quel trono ideale che gli spettava a rigor di logica. Questo riposizionamento tarantiniano mio padre non se lo poté mai godere, ed ebbe sempre la strana sensazione di non aver fatto abbastanza perché mai  premiato dalla critica che osanna e dunque vergine di riconoscimenti intellettuali. Il suo orgoglio fu dunque perfettamente sabotato, ma questo fu in fin dei conti paradossalmente anche un bene:  l’uomo, era infatti nella vita privata anche più duro di ciò che rappresentava sullo schermo, e la critica che non conferiva coccarde gli diede anche la possibilità di rimanere con i piedi per terra e coltivare il suo lato più umano.

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Sergio Garrone e Manuel de Teffé

Quando nel 2007 al Festival di Venezia feci le veci di mio padre e  presentai grazie a Quentin il capolavoro assoluto di Sergio Garrone, fu lo stesso Sergio Garrone che mi abbracciò come un padre. Emozioni e colt: quell’estate bastò la semplice scelta editoriale di Tarantino per riabilitare in sol colpo le intere carriere di  Steffen e di Garrone, grande regista dimenticato adesso novantenne che ha appena riabbracciato il genio americano durante la prima romana di “Once Upon a Time in Hollywood” (Nemo propheta in patria sotto steroidi).

A più di dieci anni dal tributo di Venezia, finalmente, in collaborazione la francese Artus71276143_2594876097218565_496113510606962688_o film, ho la gioia di annunciare che siamo riusciti a realizzare per merito del disegnatore Curd Riedel che  ha curato tutti i contenuti, uno specialissimo cofanetto tributo a Anthony Steffen con “W Django!”, di Edward Muller, rimasterizzato in 2K: Blu Ray, DVD + un libretto di 96 pagine che ripercorre la parabola artistica e umana di un grande del cinema italiano, che dopo 67 film  ha deciso di ritirarsi per non bruciarsi le retine sotto i riflettori  e divenire cieco come il suo amico Totò. Una mia lunga intervista molto particolare,  traccia un profilo inedito di Antonio de Teffé/Anthony Steffen impreziosito da aneddoti surreali e foto mai pubblicate, una su tutti quelle del matrimonio con mia madre raggiante.

Il libro annuncia anche l’inizio di un progetto al quale sto lavorando con grande emozione come regista e scrittore, dal titolo “Django begins”, che narra le indimenticabili avvenuture di Anthony Steffen in Almeria nel 1968, film che ho rivelato per primi a Castellari e Garrone, ancora in fibrillazione per il progetto.

Nato all’ambasciata brasiliana a Roma di Piazza Navona, Antonio de Teffé aveva per caso intrapreso la carriera cinematografica come  “runner” in Ladri di Biciclette del grande De Sica. Siccome era un bello e la madre si era giocata a poker un Castello a Castiglion della Pescaia, e il padre Manuel de Teffé mio omonimo, era un campione automobilistico brasiliano che non aveva molto tempo per suo figlio, papà fece fulcro sulla sua bellezza virile per entrare nel mondo dello spettacolo e marchiarlo con la sua presenza di VIR, come si definiva lui. 60681708_2372697509436426_5071463336911044608_o

Il Western gli arrivò come un gancio dal cielo quando, a metà anni 60, durante la crisi, compreso  il vizio italico di saltare  sul carro del vincitore senza sporcarsi le mani,  Antonio de Teffé si cambiò il nome in Athony Steffen, si mise in testa un cappellaccio e si fece fare da mia madre una foto in bianco e nero da cowboy per poi spedirla a tutte le produzioni romane. Moriva il brillante Antonio e sorgeva uno spietato Anthony, spariva de Teffé e montava in sella Steffen.  Succubi di un onomatopea altisonante che  doveva nascondere una misteriosa fama stellare, tutte le produzioni lo chiamarono immediatamente e papà iniziò a girare un western dopo l’altro: talmente duro, che volevano solo lui, talmente  ingenuflesso, che doveva avere sempre ragione a prescindere, tant’è che Leone gli preferì alla fine Eastwood.

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Antonella Caramazza La Lomia e Antonio de Teffé

Per la carriera, lasciò mia madre e si consacrò all’arte, ma scoprì 20 dopo di aver fatto qualche errore micidiale che rimpianse sino alla fine: il finale di La La Land,  è la copia carbone della storia dei miei genitori. Tuttavia, mia madre lo aveva perdonato e, grazie al balsamo di quel perdono immeritato, mio padre conservò una sua originale lucidità umana. Mamma, il giorno che seppe che il suo amore stava per morire a Rio de Janeiro circondato dal nulla, nonostante fosse 15 anni più giovane, invecchiò istantaneamente di altri 15 anni e decise di morire anche lei lasciandosi andare qualche anno dopo, “come corpo morto cade”.  “In realtà sono una donna felice”, mi disse sul letto al Policlinico Gemelli, “Perché ho sposato l’uomo che amavo e ho quattro splendidi figli: ho avuto tutto”.

La nascita  al cielo di mio padre segnò una settimana indimenticabile. Quando papà ci urlò per telefono che stava male, arrivai a Rio appena in tempo  con mio fratello Luiz, giunto qualche giorno prima in avanscoperta per vedere se era tutto vero:  Django il Bastardo stava realmente su una sedia a rotelle, la maschera d’ossigeno e respiri alla Darth Vader, tanta rabbia nel cuore e persone infide e caricaturali attorno.  Come piccoli Skywalker provammo a combattere ugualmente contro la sua  cattiveria imperfetta, facendoci strada a colpi di machete nel suo passato ribelle. Feci arrivare un prete carioca per l’estrema unzione e, una volta blindatagli l’anima, gli mettemmo in grembo un laptop collegato a internet per fargli una sorpresa inaudita.

“Papà, ascoltami bene: questo è Google.  So che non sai cos’è, Luiz te l’ha  spiegato tante volte a Roma: tu scrivi qui sopra il tuo nome d’arte. Qui papà. Poi avrai una sorpresa. Non te lo ricordi? ”

“Oh! Manuel! Certo che ricordo chi sono! Papà è solo stanco!”

Django il bastardoAntonio de Teffé, ancora inviperito per aver suo malgrado subito l’estrema unzione e per un computer portatile bollente sulle ginocchia, si chinò su quello schermo luminoso e batté lentamente ANTHONY STEFFEN,  poi si bloccò, per un attimo il suo respiro si interruppe e gli occhi gli divennero quelli di un bambino di 6 anni divorato dalla meraviglia. Google gli stava caricando davanti il suo intero passato di una vita artistica:  i poster di tutti i suoi film, uno ad uno, tradotti in tutte le lingue del mondo, perfino in giapponese e finlandese, prendevano vita sotto il suo sguardo sbalordito:
“Una bara per lo sceriffo” (1965), “Perché uccidi ancora?” (1965), “Sette dollari sul Rosso” (1966), “Pochi dollari per Django” (1966), “Mille dollari sul nero” (1966), “Ringo il volto della vendetta” (1967), “Killer Kid (1967), “Un treno per Durango” (1967), “Gentleman Joe, uccidi” (1967) , “Il pistolero segnato da Dio” (1968), “I morti non si contano” (1968), “Una lunga fila di croci” (1968) , “Il suo nome gridava vendetta” (1968) “Uno straniero a Paso Bravo” (1968) “Diango il bastardo” (1969) “Garringo” (1969)  “Arizona si scatenò e li fece fuori tutti”(1970), “Arriva Sabata” (1970), “Un uomo chiamato Apocalisse Joe” (1970), “Shango la pistola infallibile” (1970), “W Django” (1971), “Lo credevano uno stinco di Santo” (1972), “Tequila” (1973)…Django il bastardo - poster Giapppnese

“Ho fatto tutto questo? Anche in Giapponese? Guardate il poster di Django il Bastardo in giapponese! Che fico… Vorrei chiamare Garrone. Ma forse è morto, meglio di no che poi mi mette tristezza. Sergio Garrone era un grande ma chi se lo ricorderà. Ah, e i preti qui non devono più mettere piede. Dicono cose strane.”

Papà passò un pomeriggio intero guardare e riguardarsi tutti i poster, migliaia, divenendo sempre più buono in viso, fino a ritrasformarsi definitivamente nell’Antonio che conobbe mamma. E noi lo ricordiamo così:  riunite  le  forze rimaste, guardò me e mio fratello Luiz formulando le ultime sue parole sensate mentre allungava le braccia dal letto, in alto, verso i nostri visi: “Amori miei” .

Sono passati quasi 15 anni da quel Giugno del 2004, e adesso spuntano nella mia vita gli amici che lo hanno amato davvero, persone come l’artista francese Curd Riedel primo promotore del Blu Ray tributo, i mitici registi italiani amati da Tarantino come Enzo Castellari e Sergio Garrone e molti altri.

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La mia ultima foto di mio padre a Rio

Persone  che me lo raccontano con gli occhi di chi lo ha conosciuto veramente, lontani da quella critica che Tarantino ha voluto criticare così elegantemente in “Once Upon a time in Hollywood” attraverso un sottilissimo dialogo  in macchina tra Brad Pitt e Di Caprio, uno scambio di battute quasi per gli addetti ai lavori che si interpreta esattamente al contrario e che suona più o meno così:

PITT: E’ un bel po’ che non faccio la controfigura a tempo pieno e per come la vedo io,  andare a Roma a girare dei film non è quella gran condanna a morte che a quanto pare tu pensi che sia. DI CAPRIO: Andiamo, hai mai visto uno dei loro western? Sono orrendi! È una farsa totale!  PITT: Sì? E’ quanti ne hai visti, uno? DI CAPRIO: Abbastanza, d’accordo? A nessuno piacciono gli spaghetti western…”

E voi? Quanti ne avete visti?

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Manuel de Teffé e Enzo Castellari

Uno?

“W django!”

Manuel de Teffé

Writer/Director

Gli eletti salutano per primi: le vertigini di un buongiorno. Come salutarsi offline ai tempi di Faccialibro – Da una società feudale a un’economia di relazione – VII parte

Quand’ero bambino, verso i dieci anni, feci la seconda più grande scoperta della mia vita.  La cristallizzazione di quella scoperta fu accelerata in seguito alla mia prima polaroid, regalo che probabilmente acuì il portafoglio di percezioni e deduzioni accumulate da dopo l’affrancamento Lines. Tuttavia, raggiunsi la completezza di tale acquisizione in quattro tappe precise.

1. Il dubbio romano Nel corso degli anni, scendendo ogni mattina con mio padre per via dei “Pinnacchi blu” notavo da lontano che  i vari negozianti, ognuno sull’uscio del proprio negozio, chi sguardo rivolto al vuoto, chi a biascicarsi una sigaretta, chi ad aspettare Godot,  si ritraevano in bottega prima che noi varcassimo la linea di riconoscimento sensibile, ossia quei dodici  metri in cui non puoi non balbettare un saluto di convenienza quando la tua esistenza sta per speronare un’altra, perché è chiaro che gli sguardi si stanno per incrociare ed è fisicamente impossibile non entrare in relazione. Per una psicologia che ignoravo invece, a 12 metri dall’entrata in area di barista, calzolaio, vinaio e fruttivendolo, ognuno di loro rientrava in negozio come per evitare un mutuo saluto. Come per non fare accaderlo, per non essere sottoposti al peso di una risposta scontata. Avevo la sensazione che io e mio padre pestassimo per terra, a un certo punto del marciapiedi, qualche bottone invisibile che attivasse un’energia di risucchio dal retrobottega. Arrivati dal pasticcere, sempre dentro a lavorare, buongiorno-buongiorno, si prendeva una pasta allo zabaione e si tornava indietro. Stessa avanzata, stessi rientri.

Con mia madre esperta in pubbliche relazioni, mio padre attore e una geografia di vorticose comunicazioni attorno alla famiglia, iniziai a percepire che esistevano italiani che vivevano nei loro mondi e, lentamente,  che gli italiani vivevano rinchiusi in altri mondi: era la società feudale che avrei teorizzato una volta a New York. Ma mi diedi tempo, continuai ad osservare il fenomeno finché la sua ripetizione negli anni non suggellò il convincimento che quanto avveniva non fosse affatto casuale. Quel giorno avevo 10 anni ed ero deciso a esporre il dubbio a mio padre, ma venendo lui a Roma una volta ogni 12 mesi, non avevo ancora molta dimestichezza con la relazione e non dissi nulla: avrei rimandato la domanda di ben 18 anni.

2. Realizzazione inglese Tuttavia, willy nilly, sviluppai nel tempo e senza sospettarlo la dipendenza da non saluto, e quando mi ritrovai a diciannove anni in vacanza in Inghilterra a Hemel Hempstead ospite dell’allegra brigata Massey (amici d’infanzia di mia madre), mi resi tristemente conto di come la mia più grande preoccupazione esistenziale fosse schivare la slavina mattutina dei “Good morning!” e degli “How did you sleep”. Non dimenticherò mai lo stato d’animo del primo risveglio da ospite. Mi recai in cucina a fare colazione, Simon, mio coetaneo, già seduto per il breakfast, con due fiocchi di granturco incollati ai lati della bocca mi apostrofò un cisposo : “Good morning Manuel, did you sleep well?” Risposi subito “buon giorno” ma tentennai sul seguito, ragionai sul fatto di aver dormito bene, una domanda fuori dall’evoluzione delle mie risposte…“Goodness, it was freaking cold last night!” Carburai un po’ cupo. “Plus it’s Summer, but yes I slept well, I had weird dreams though, you know?…” Mi sedetti, precipitai anch’io qualche conrnflakes nel latte ma fui poco dopo assalito dalla stessa domanda in bocca al fratello minore , che all’altezza del tostapane ripetè con la stessa inflessione: “Good morning Manuel! How did you sleep?” Clonai la risposta già data variandola leggermente verso la fine per non cadere in una scontata ripetizione. Quando mi entrarono entrambi i genitori:”Good morning Manuel!” Proclamò Eleonor .”Did you sleep well?”  Rincarò la dose John con aria inquisitoria. In quel momento Il latte iniziò ad avere un sapore amaro. I cornflakes nel cucchiaio divennero pesanti. “Good morning John,  Good morning Eleonor. I slept very well thank you, it was a lovely night. A very lovely night, thank you so much. And you? How di you sleep ? “ Pensavo di aver finito di scontare una pena sconosciuta, quando a ruota, ricevetti il colpo di grazia. Catherine, la terza figlia, chioma rossa selvaggia e maglione verde fosforescente, mi accoltellò col suo personale “Good morning, how did you sleep?”, ma con un brio che mi imponeva una risposta su misura. Rapida immersione nelle marianne del mio subconsio. Raccolgo il guanto. Emersione e Numero. Per un progressivo desiderio di originalità, onde non suonare banale, la intrattenni per dieci minuti spiegando come avevo passato la notte utilizzando il tappeto di finto orso bianco come seconda coperta, di come stavo quasi per staccare le tende verdi e avvolgermi come un bruco. Risero tutti mentre io facevo finta di divertirmi: in realtà stavo sperando disperatamente che Ben , il quarto fratello, si alzasse tardi o che non si alzasse affatto.

Il giorno dopo, al mio risveglio, tesi bene le orecchie agli spostamenti di passi nella casa, smistando mentalmente i movimenti di animali domestici dallo spantofolio umano, determinato a entrare in cucina solo quando tutti i Massey fossero già a tavola a nuotare tra i cornflakes, per evitare il martirio dei buongiornoaudidiuslip, napalm sui miei timpani. Un buongiorno collettivo sarebbe stato più che sufficiente. Ero forse diventato anch’io uno dei pii negozianti di via dei Pennacchi? Provavo forse lo stesso tipo di imbarazzo?  E se accadeva ciò, quali erano gli underpinnings di una psicologia che aveva timore di un semplice buongiorno? Lo avrei scoperto in Francia solo nove anni dopo.

3. L’epifania francese Ero nuovamente in vacanza, questa volta a Paray le Monial,  in Borgogna. Una mattina mi alzo e vado a fare colazione in un café. Il posto era gremito di ragazzi, prendo un “cappuccino”, un croissant e mi siedo. Arriva una ragazzina di 15-16 anni minuta e insignificante, mi si siede di fronte. Mentre sto per dare la prima mano di burro, sorride prendendomi alla sprovvista: “Bon jour, ça va?” Mi dicono 2 trecce bionde con una dolcezza che non meritavo. I was blown away: fu come se qualcuno mi avesse segnato un rigore da un’altra galassia… Vidi in quel buongiorno il centro della via lattea, sistole e diastole, Carl lewis che sfondava i duecento, il riflesso del lupo di Gubbio negli occhi di Francesco. Mi commossi profondamente: quella ragazzina non aveva detto buongiorno, era lei stessa il mio buon giorno, era la garanzia del mio buon giorno, l’assegno circolare di una giornata che sarebbe andata in porto. Capii dunque come tutti i buongiorno romani fossero stati evirati sia del giorno che del buon. Di come l’augurio per eccellenza, per pigrizia, si fosse assentato da sé sesso. La parola si era smagnetizzata dal suo significato, aveva fatto una crociera nei Caraibi e aveva lasciato il significato a casa a fare la maglia. Un po’ come la mano che ti si struscia sulla testa ma non espelle carezze perché il pensiero sgranchisce altrove i suoi neuroni. Tornai a Roma stupito e provai quel nuovo buongiorno senza che nessuno se ne accorgesse. Cercai di riallinearlo al suo significato senza farlo partire più dalle retrovie di una mia distrazione. Ma il significato si era ormai squantizzato dal termine e un mio buongiorno poteva dire qualsiasi cosa: ci volle del tempo prima che quella parola tornasse a significare tutto.

4. La spiegazione di Rio  Fu però a Rio de Janeiro, lo stesso anno a casa di mio padre, che capii definitivamente come stavano le cose. Era mattino, mi trovavo nel mezzo della mia permanenza in Brasile, quando si iniziano a fare i conti col pensiero del ritorno ma si spera  ancora che  l’incontro della seconda settimana, coltivato bene nella terza, possa sbocciare clamorosamente nella quarta. Quell’eccitazione da sabato del villaggio si agitò nello stagno delle mie memorie facendo riaffiorare un pensiero sepolto. “Sai papà, sin da bambino mi è sempre sembrato che i negozianti di via dei Pennacchi si ritraessero al nostro passaggio, come se avessero paura, non so, di essere obbligati a salutarci. Mi sembra proprio che a Roma la gente faccia fatica a dirti buongiorno. Ma perché?” Dall’altro lato della stanza, seduto su un divano di bambù, fiotti di sole alle spalle, in epica controluce, mio padre mi guardò sorridente con un caffellatte enorme tra le mani e disse.

“Gli eletti salutano per primi”.

(Anthony Steffen)

Manuel de Teffé

P.S. QUESTO ARTICOLO E’ DEDICATO ALLA MIA AMICA ANGELIKA, CHE TORNATA DALL’AFRICA, DOPO UN ESTENUANTE LAVORO NEI CAMPI PROFUGHI KENIOTI, SI DOMANDA DEL PERCHE’ QUI SI FACCIA COSI’ FATICA A SCAMBIARSI UN SEMPLICE BUONGIORNO.

Il primo video musicale di Giacomo Celentano

L’estate scorsa, mi trovavo a Milano chiamato da Santa Chiara Media Company per conoscere Giacomo Celentano e scegliere insieme a lui una canzone del suo LP da trasformare nel suo primo video musicale. Arrivavo abbastanza provato da Londra, dove avevo appena finito le riprese di un video musicale per Roseanna, (il terzo in lingua inglese che giravo in un anno ) e l’idea di poter lavorare con il figlio di Adriano Celentano mi divertiva per un motivo del tutto singolare:  nel 1959,  i nostri padri avevano iniziato insieme le loro carriere in una deliziosa commedia musicale  diretta da Lucio Fulci: I ragazzi del Juke Box. Antonio de Teffé, sarebbe poi divenuto Anthony Steffen e Adriano  sarebbe divenuto  Celentano. 40 anni dopo, i figli si sarebbero conosciuti sempre a causa della musica. Mi studio Giacomo, Giacomo si studia il regista, parliamo, ascoltiamo il pezzo varie volte, l’aria condizionata è troppo forte, grazie a Jacopo Peretti Cucchi di tutto, e immaginiamo scenari. E’ il primo video, bisogna far qualcosa di molto semplice e lineare, Giacomo mi spiega che deve essere una sorta di aperitivo, ha in mente un lancio per il Settembre del 2011 e ha bisogno di un’apripista. Mesi dopo sarei risceso a Milano, e sotto l’occhio del vigile Stefano Mascali si fa un casting e si prendono Caterina Mazzucco e Federico Amoni. Adesso, lasciatemi fare qualche domanda all’artista Giacomo.

Manuel Caro Giacomo, introduce yourself please!

Giacomo Va bene…allora…piacere sono Giacomo Celentano, figlio d’arte, figlio di Adriano e sono principalmene un cantautore. Ho avuto anche varie esperienze come autore televisivo, ma la musica rimane sempre la mia passione principale.

Manuel La gente si chiederà, come mai adesso un video musicale, dove sei stato tutto questo tempo?

Giacomo Lunga storia…Diciamo che ho deciso di fare adesso un videoclip perchè penso sia arrivato il momento giusto. Ognuno ha tempi differenti…Il mio ultimo CD “Inevetabilmente noi” è uscito nel Novembre del 2009 e questa canzone “Quanto amore c’é” era proprio la canzone giusta da trasformare in immagini.

Manuel Cosa vuole dire questa canzone?

Giacomo La canzone è un inno all’amore, all’amore di coppia. Per questo ho pensato di cantarla insieme a mia moglie Katia…Un duetto decisamente inusuale. Non so se qualche altro cantante abbia mai  cantato con la sua dolce metà…Forse no…Forse sono il primo!

Manuel Come è stato cantare con la moglie Katia?

Giacomo Guarda, è molto bello condividere con la donna che ami una passione così forte come quella mia per la musica. Un videoclip particolare: un grazie a tutta Santa Chiara media Company!

Manuel Che progetti hai per il futuro?

Giacomo Molti progetti, ma sicuramente non tutti vedranno la luce. Un nuovo singolo per Settembre 2011, e un nuovo video il cui regista dovresti essere proprio tu Manuel; un EP per l’anno nuovo, un tour nei paesi dell’Est, e un progetto televisivo.

Manuel Lanciamo un saluto anche a tutti gli italiani all’estero, nel 150° dell’unità?

Giacomo Sicuramente. Un grande abbraccio a tutti i nostri connazionali all’estero ed un augurio…Che non si dimentichino mai del nostro grande paese chiamato Italia! E un appuntamento a Settembre con il mio secondo primo video musicale…Secondo primo video perchè…Questo è fatto a metà con mia moglie…Dunque il secondo sarà ancora un primo…