


La Corte dei Baroni di Jesolo ha organizzato una bellissima presentazione estiva del mio romanzo: domenica 31 Agosto alle ore 18:00. Tutti invitati!
Ecco l’invito:




La Corte dei Baroni di Jesolo ha organizzato una bellissima presentazione estiva del mio romanzo: domenica 31 Agosto alle ore 18:00. Tutti invitati!
Ecco l’invito:


“C’era una volta a Roma” avrà una nuova presentazione a Jesolo il 31 agosto. Presto comunicherò ora e luogo. Manuel de Teffé
Lo scrittore Giuseppe Manfridi, una delle migliori penne esistenti al mondo, ha appena presentato sulla sua pagina Facebook, “C’era una volta a Roma”. Il romanzo continua il suo viaggio… Ci vediamo presto in quel di Venezia, anche insieme a questo gigante della letteratura. Buona estate a tutti! Manuel de Teffé
Pubblico il commento dello scrittore Mauro Germani, poeta, scrittore, saggista, fondatore e direttore responsabile della rivista di scrittura, pensiero e poesia “margo” dal 1988 al 1992.
Manuel de Teffé, C’era una volta a Roma, Readaction, 2023
Il romanzo di Manuel De Teffé, C’era una volta a Roma, ci riporta agli inizi degli anni Sessanta, quando il cinema italiano, dopo l’uscita nel 1964 di Per un pugno di dollari, non sarà più lo stesso. Il film, realizzato con un budget piuttosto basso, è firmato da Bob Robertson, ma è in realtà Sergio Leone, mentre il protagonista è Clint Eastwood, attore americano pressoché sconosciuto. Molti interpreti sono italiani, però i loro nomi sono celati dietro pseudonimi americaneggianti, come nel caso del coprotagonista Gian Maria Volonté, che usa lo pseudonimo di John Wells. Persino la colonna sonora è attribuita a un certo Dan Savio, dietro il quale si nasconde il vero autore, cioè il maestro Ennio Morricone. Sorprendendo tutti, il film in Italia incassa, in un anno di programmazione, quasi due miliardi di lire.
Comincia così la straordinaria avventura del western all’italiana, che vedrà la produzione di oltre cinquecento film, naturalmente non tutti di qualità, anche se parecchi di essi, in anni recenti, sono stati giustamente rivalutati e apprezzati grazie al contributo di Quentin Tarantino. Certo è che dopo Per un pugno di dollari, la rivoluzione cinematografica di Sergio Leone diviene per molti registi e sceneggiatori romani un modello da seguire. Vengono adottate le modalità espressive più appariscenti del suo cinema: inquadrature ricche di dettagli, primissimi e primi piani, personaggi che lottano per la loro sopravvivenza e agiscono perlopiù motivati dalla vendetta o dalla sete di denaro, violenza esasperata, dialoghi brevi, sarcastici, a volte – nei casi migliori – addirittura aforistici. Artigiani del cinema si danno da fare, cercano nuove soluzioni per sorprendere il pubblico, elaborano situazioni e personaggi originali, agli antipodi del western americano tradizionale. Nascono i protagonisti di un filone popolare irripetibile, dominato dai vari Ringo, Django, Sartana, Sabata, con i loro abiti “vissuti” o stravaganti (poncho, mantelli neri, spolverini): essi spesso appaiono avvolti da un’aura mitica e quasi mistica, oppure sono eroi che vivono una solitudine estrema, cupa, ossessionati dal proprio tragico passato.
Manuel de Teffé, figlio di Antonio de Teffé, in arte Anthony Steffen, uno dei maggiori protagonisti del western all’italiana (ne interpretò ben ventisette), rievoca il periodo in cui suo padre, fino ad allora attore teatrale, decide di dedicarsi al cinema western emergente, grazie alle sollecitazioni della fidanzata che diverrà poi sua moglie, Antonella. Con una narrazione assai avvincente, che va aldilà della semplice biografia – la quale viene trasfigurata per comporre un vero e proprio romanzo – de Teffé ci consegna un’opera al tempo stesso godibile e stratificata. Elementi reali e d’invenzione si fondono in modo sorprendente e caratterizzano con efficacia il periodo storico della vicenda e i personaggi coinvolti.
Si possono rinvenire nel libro almeno quattro fattori o nuclei narrativi, che interagiscono tra loro e che concorrono alla struttura del libro.
Il primo, cioè quello centrale, è costituito dalle figure di Antonio de Teffé e della moglie. La loro è una storia d’amore appassionata e contraddistinta da un mix di intelligenza, ironia e cultura. I loro dialoghi e le loro lettere hanno un che di scoppiettante come nelle migliori commedie brillanti. Sarà proprio Antonella a convincere Antonio a dedicarsi al cinema western e a inventare lo pseudonimo di Anthony Steffen. Pur nelle loro differenze caratteriali, essi formano una coppia in qualche modo irresistibile, di rara e raffinata complicità.
C’è poi il secondo elemento, quello collettivo, cioè propriamente storico, in cui agiscono i personaggi: è l’ambiente degli anni Sessanta, con gli entusiasmi e le contraddizioni di quel periodo: da una parte le proteste contro la guerra in Vietnam, le paure della guerra fredda e delle minacce nucleari, dall’altra le speranze dei giovani hippy e l’eccitazione dei cineasti romani per le produzioni western e il sogno del successo. È un piano che fa da sfondo a tutta la vicenda, ma che non deve essere considerato secondario, anzi: esso determina il clima particolare che le pagine del libro trasmettono al lettore.
Vi sono inoltre i personaggi che ruotano attorno ai due protagonisti: un guru di recitazione russa, che si basa sul metodo Stanislavskij, un regista ebreo di documentari, affetto da narcolessia, e un anziano imprenditore di grissini che vuole realizzare un film tratto dal suo manoscritto segreto: Niente dollari per Django. Sono personaggi ben calati nel loro ambiente e ben delineati: muovono la storia, con il loro linguaggio, le loro gag, il loro modo di essere, che si confronta con il mondo diverso e aristocratico del protagonista, il futuro Anthony Steffen del cinema western.
Infine, a ben vedere, si può cogliere tra le pieghe del libro una dimensione più nascosta, misteriosa. Abbastanza frequenti sono, qua e là, i riferimenti a Dio, soprattutto nella relazione tra Antonio, che si dichiara non credente, e Antonella, che invece è assai devota. Non c’è, però, tra i due una contrapposizione schematica, e lo stesso ateismo di Antonio sembra talvolta cedere alla richiesta di un aiuto superiore, a una domanda spirituale. E leggendo attentamente il romanzo non si può non avvertire una sorta di soffio magico, che permea l’intera storia narrata. Ciò non riguarda solo l’avventura cinematografica del western all’italiana, con quanto di ingegno e di creatività ha saputo concentrare tra gli anni Sessanta e Settanta (condizionando, tra l’altro, la stessa cinematografia western americana, che si è trovata inaspettatamente debitrice dei nostri film), ma anche i personaggi principali del romanzo: eroi, in qualche modo, predestinati, colti dall’autore agli inizi della loro eccezionale impresa. Un’avventura davvero senza precedenti, in cui Anthony Steffen sarà uno dei volti più popolari del nostro cinema western. Questo romanzo è indubbiamente anche un’occasione per ricordarlo e riscoprirlo come merita.

Un grazie speciale ad Adriano Monti Buzzetti della redazione culturale del TG2 RAI per l’eccezionale intervista che mi ha dedicato per il Blu Ray tributo di “W Django!”. “Eccezionale” nell’accezione esatta del termine, perché ha spaziato dalla storia di famiglia a “Anthony Steffen”, fino ai progetti futuri. Rimango sempre piuttosto stupito quando un giornalista ASCOLTA, ossia quando non pensa alla preparazione della domanda successiva ma interloquisce curioso insieme a te… Allora hai improvvisamente la sensazione di raccontare una storia a un amico, e in quel momento cambia tutto e si aprono scenari conversazione vera. Questa l’essenza del giornalismo, scavare nella superficie e arrivare al core.
Manuel de Teffé


Fu grazie a Quentin Tarantino che potei apprezzare per la prima volta mio padre come Anthony Steffen sul grande schermo, nel Settembre del 2007, quando fui invitato al Festival di Venezia per presentare “Una lunga fila di Croci” di Sergio Garrone, durante una speciale retrospettiva western che il regista e scrittore americano aveva voluto per spararci in un sol colpo tutte le sue opere più amate del genere.
Antonio de Teffé, in arte Anthony Steffen, re indiscusso ma quasi dimenticato del cinema western europeo con ben 27 titoli da protagonista assoluto, era morto qualche anno prima, a Rio de Janeiro, abbattuto da un male assurdo, attorniato da una solitudine spettacolare, quel tipo di sipario che spesso cala come contrappasso redentivo su coloro che hanno battuto troppo i pezzi alla gloria del mondo per poi passare con affettata disinvoltura al lato oscuro.
Tarantino aveva ristabilito a Venezia Anthony Steffen tra gli indimenticabili, lo aveva prepotentemente strappato a una critica che lo aveva offeso, deluso e troppo ridimensionato agli occhi del pubblico, perché artista non impegnato negli anni dell’impegno assoluto, e lo aveva adagiato su quel trono ideale che gli spettava a rigor di logica. Questo riposizionamento tarantiniano mio padre non se lo poté mai godere, ed ebbe sempre la strana sensazione di non aver fatto abbastanza perché mai premiato dalla critica che osanna e dunque vergine di riconoscimenti intellettuali. Il suo orgoglio fu dunque perfettamente sabotato, ma questo fu in fin dei conti paradossalmente anche un bene: l’uomo, era infatti nella vita privata anche più duro di ciò che rappresentava sullo schermo, e la critica che non conferiva coccarde gli diede anche la possibilità di rimanere con i piedi per terra e coltivare il suo lato più umano.

Quando nel 2007 al Festival di Venezia feci le veci di mio padre e presentai grazie a Quentin il capolavoro assoluto di Sergio Garrone, fu lo stesso Sergio Garrone che mi abbracciò come un padre. Emozioni e colt: quell’estate bastò la semplice scelta editoriale di Tarantino per riabilitare in sol colpo le intere carriere di Steffen e di Garrone, grande regista dimenticato adesso novantenne che ha appena riabbracciato il genio americano durante la prima romana di “Once Upon a Time in Hollywood” (Nemo propheta in patria sotto steroidi).
A più di dieci anni dal tributo di Venezia, finalmente, in collaborazione la francese Artus
film, ho la gioia di annunciare che siamo riusciti a realizzare per merito del disegnatore Curd Riedel che ha curato tutti i contenuti, uno specialissimo cofanetto tributo a Anthony Steffen con “W Django!”, di Edward Muller, rimasterizzato in 2K: Blu Ray, DVD + un libretto di 96 pagine che ripercorre la parabola artistica e umana di un grande del cinema italiano, che dopo 67 film ha deciso di ritirarsi per non bruciarsi le retine sotto i riflettori e divenire cieco come il suo amico Totò. Una mia lunga intervista molto particolare, traccia un profilo inedito di Antonio de Teffé/Anthony Steffen impreziosito da aneddoti surreali e foto mai pubblicate, una su tutti quelle del matrimonio con mia madre raggiante.
Il libro annuncia anche l’inizio di un progetto al quale sto lavorando con grande emozione come regista e scrittore, dal titolo “Django begins”, che narra le indimenticabili avvenuture di Anthony Steffen in Almeria nel 1968, film che ho rivelato per primi a Castellari e Garrone, ancora in fibrillazione per il progetto.
Nato all’ambasciata brasiliana a Roma di Piazza Navona, Antonio de Teffé aveva per caso intrapreso la carriera cinematografica come “runner” in Ladri di Biciclette del grande De Sica. Siccome era un bello e la madre si era giocata a poker un Castello a Castiglion della Pescaia, e il padre Manuel de Teffé mio omonimo, era un campione automobilistico brasiliano che non aveva molto tempo per suo figlio, papà fece fulcro sulla sua bellezza virile per entrare nel mondo dello spettacolo e marchiarlo con la sua presenza di VIR, come si definiva lui. 
Il Western gli arrivò come un gancio dal cielo quando, a metà anni 60, durante la crisi, compreso il vizio italico di saltare sul carro del vincitore senza sporcarsi le mani, Antonio de Teffé si cambiò il nome in Athony Steffen, si mise in testa un cappellaccio e si fece fare da mia madre una foto in bianco e nero da cowboy per poi spedirla a tutte le produzioni romane. Moriva il brillante Antonio e sorgeva uno spietato Anthony, spariva de Teffé e montava in sella Steffen. Succubi di un onomatopea altisonante che doveva nascondere una misteriosa fama stellare, tutte le produzioni lo chiamarono immediatamente e papà iniziò a girare un western dopo l’altro: talmente duro, che volevano solo lui, talmente ingenuflesso, che doveva avere sempre ragione a prescindere, tant’è che Leone gli preferì alla fine Eastwood.

Per la carriera, lasciò mia madre e si consacrò all’arte, ma scoprì 20 dopo di aver fatto qualche errore micidiale che rimpianse sino alla fine: il finale di La La Land, è la copia carbone della storia dei miei genitori. Tuttavia, mia madre lo aveva perdonato e, grazie al balsamo di quel perdono immeritato, mio padre conservò una sua originale lucidità umana. Mamma, il giorno che seppe che il suo amore stava per morire a Rio de Janeiro circondato dal nulla, nonostante fosse 15 anni più giovane, invecchiò istantaneamente di altri 15 anni e decise di morire anche lei lasciandosi andare qualche anno dopo, “come corpo morto cade”. “In realtà sono una donna felice”, mi disse sul letto al Policlinico Gemelli, “Perché ho sposato l’uomo che amavo e ho quattro splendidi figli: ho avuto tutto”.
La nascita al cielo di mio padre segnò una settimana indimenticabile. Quando papà ci urlò per telefono che stava male, arrivai a Rio appena in tempo con mio fratello Luiz, giunto qualche giorno prima in avanscoperta per vedere se era tutto vero: Django il Bastardo stava realmente su una sedia a rotelle, la maschera d’ossigeno e respiri alla Darth Vader, tanta rabbia nel cuore e persone infide e caricaturali attorno. Come piccoli Skywalker provammo a combattere ugualmente contro la sua cattiveria imperfetta, facendoci strada a colpi di machete nel suo passato ribelle. Feci arrivare un prete carioca per l’estrema unzione e, una volta blindatagli l’anima, gli mettemmo in grembo un laptop collegato a internet per fargli una sorpresa inaudita.
“Papà, ascoltami bene: questo è Google. So che non sai cos’è, Luiz te l’ha spiegato tante volte a Roma: tu scrivi qui sopra il tuo nome d’arte. Qui papà. Poi avrai una sorpresa. Non te lo ricordi? ”
“Oh! Manuel! Certo che ricordo chi sono! Papà è solo stanco!”
Antonio de Teffé, ancora inviperito per aver suo malgrado subito l’estrema unzione e per un computer portatile bollente sulle ginocchia, si chinò su quello schermo luminoso e batté lentamente ANTHONY STEFFEN, poi si bloccò, per un attimo il suo respiro si interruppe e gli occhi gli divennero quelli di un bambino di 6 anni divorato dalla meraviglia. Google gli stava caricando davanti il suo intero passato di una vita artistica: i poster di tutti i suoi film, uno ad uno, tradotti in tutte le lingue del mondo, perfino in giapponese e finlandese, prendevano vita sotto il suo sguardo sbalordito:
“Una bara per lo sceriffo” (1965), “Perché uccidi ancora?” (1965), “Sette dollari sul Rosso” (1966), “Pochi dollari per Django” (1966), “Mille dollari sul nero” (1966), “Ringo il volto della vendetta” (1967), “Killer Kid (1967), “Un treno per Durango” (1967), “Gentleman Joe, uccidi” (1967) , “Il pistolero segnato da Dio” (1968), “I morti non si contano” (1968), “Una lunga fila di croci” (1968) , “Il suo nome gridava vendetta” (1968) “Uno straniero a Paso Bravo” (1968) “Diango il bastardo” (1969) “Garringo” (1969) “Arizona si scatenò e li fece fuori tutti”(1970), “Arriva Sabata” (1970), “Un uomo chiamato Apocalisse Joe” (1970), “Shango la pistola infallibile” (1970), “W Django” (1971), “Lo credevano uno stinco di Santo” (1972), “Tequila” (1973)…
“Ho fatto tutto questo? Anche in Giapponese? Guardate il poster di Django il Bastardo in giapponese! Che fico… Vorrei chiamare Garrone. Ma forse è morto, meglio di no che poi mi mette tristezza. Sergio Garrone era un grande ma chi se lo ricorderà. Ah, e i preti qui non devono più mettere piede. Dicono cose strane.”
Papà passò un pomeriggio intero guardare e riguardarsi tutti i poster, migliaia, divenendo sempre più buono in viso, fino a ritrasformarsi definitivamente nell’Antonio che conobbe mamma. E noi lo ricordiamo così: riunite le forze rimaste, guardò me e mio fratello Luiz formulando le ultime sue parole sensate mentre allungava le braccia dal letto, in alto, verso i nostri visi: “Amori miei” .
Sono passati quasi 15 anni da quel Giugno del 2004, e adesso spuntano nella mia vita gli amici che lo hanno amato davvero, persone come l’artista francese Curd Riedel primo promotore del Blu Ray tributo, i mitici registi italiani amati da Tarantino come Enzo Castellari e Sergio Garrone e molti altri.

Persone che me lo raccontano con gli occhi di chi lo ha conosciuto veramente, lontani da quella critica che Tarantino ha voluto criticare così elegantemente in “Once Upon a time in Hollywood” attraverso un sottilissimo dialogo in macchina tra Brad Pitt e Di Caprio, uno scambio di battute quasi per gli addetti ai lavori che si interpreta esattamente al contrario e che suona più o meno così:
PITT: E’ un bel po’ che non faccio la controfigura a tempo pieno e per come la vedo io, andare a Roma a girare dei film non è quella gran condanna a morte che a quanto pare tu pensi che sia. DI CAPRIO: Andiamo, hai mai visto uno dei loro western? Sono orrendi! È una farsa totale! PITT: Sì? E’ quanti ne hai visti, uno? DI CAPRIO: Abbastanza, d’accordo? A nessuno piacciono gli spaghetti western…”
E voi? Quanti ne avete visti?

Uno?
“W django!”
Manuel de Teffé
Writer/Director
Non ricordo.
Non ricordo di aver mai visto nessun film che per intensità narrativa, follia drammaturgica e maestosità attoriale abbia innalzato così in alto la “Suspension of disbelief” da fare impallidire la storia del cinema in toto. Padrini, Cuculi, Kane e Straniamori hanno già accusato il colpo, spodestati in massa da un quadro caduto a terra, un boato che ripercorre e doppia tutta la storia dei colpi di scena di qualsiasi arte.
I capolavori del cinema di tutti i tempi si sono infatti appena resi conto, uno dopo l’altro, di non esser mai riusciti in realtà a osare un “twist in the plot” di simile caratura. Nessuno di loro ha scassinato l’animo umano andando a parlargli in modo così vertiginosamente intimo mettendo il dito nella piaga fino all’attaccatura della spalla. Nessuno è mai riuscito a escogitare un colpo di scena così organico e saturo di metafore da rimettere in riga tutte le più belle metafore che memoria umana ricordi.
Perché “La migliore offerta” di Giuseppe Tornatore è anche la migliore offerta del cinema italiano degli ultimi 30 anni, la più grande prova d’attore di Goffrey Rush, la maturità totale del regista siciliano. Un film che segna la “fine” della carriera di Tornatore come “8 e mezzo” segnò l’inizio e la fine di Fellini. Accade infatti che l’artista produce il suo capolavoro in stato di grazia e che il capolavoro plachi per sempre e inconsapevolmente l’artista il quale, da quel momento in poi, creerà sì film magistrali, ma senza mai poter riaccarezzare quel culmine, vetta che per una legge misteriosa e provvidenziale è dato umanamente di poter lambire una sola volta a ognuno di noi, come Carl Lewis vinse i quattro ori in una sola olimpiade e amen.
Samuel Taylor Coleridge, fine poeta inglese e famosissimo oppiomane, spiegò nel 1800 una volta e per tutte la differenza che passa tra prosa e poesia, e lo così fece spartanamente da mettere a tacere per sempre qualsiasi speculazione sul tema. Un giorno, probabilmente in stato di grazia e obnubilato dal fumo, disse con toni disarmanti che la prosa erano le parole nel loro miglior ordine, e la poesia le migliori parole nel loro miglior ordine. Concetto migliore non gli riuscì più. E qui, di poesia si tratta, perché a livello musicale, “La migliore offerta” di Giuseppe Tornatore sono esattamente gli ultimi 3 minuti dell’Estate di Vivaldi: le migliori note nel loro miglior ordine.
Per sbarazzarsi dell’atmosfera di un film simile, sempre ce ne si voglia sbarazzare, l’unico trucco da adottare sarebbe quello di rinchiudersi in una stanza e spararsi senza pietà tutti i film di Alvaro Vitali: solo l’opera omnia di Pierino a loop demenziale potrebbe scartavetrare infatti una simile memoria.
Ricordo molto bene la prima volta che conobbi Tornatore. Una mia ex fidanzata, assunta come comparsa ne “La leggenda del pianista sull’oceano”, mi invitò sul set durante la scena del ballo. Andai a farle visita a Cinecittà, conobbi Tornatore, gli strinsi la mano e gli feci velocemente i miei migliori auguri per il film. Come regista non ho mai amato dilungarmi con altri registi mentre stanno lavorando, perché la cosa disturberebbe anche me. Ciò che quel giorno mi rimase più impresso non fu il set in sé stesso né il dispiego disumano di energie tecniche, ma lo sguardo sereno e umile dell’uomo Tornatore. Serena umiltà che ho ritrovato anni dopo anche nello sguardo di un mio amico, che guarda caso è stato scelto proprio da Tornatore come operatore de “La migliore offerta”: Fabrizio Vicari. Visto il film chiamo Fabrizio il giorno dopo e lo butto giù dal letto all’alba.
M: Fabrizio ma ti rendi conto di cosa hai fatto?
F: Che cosa? Che è successo?
M: Hai girato un capolavoro, tutte inquadrature perfette, asciuttissime, non ne hai toppata una.
F: Ah, l’hai visto?
M: Si. Capolavoro assoluto.
F: Ma dai…Ti è piaciuto?
M: Capolavoro assoluto. Adesso puoi anche andare in pensione.
F: Ah, sono contento…Mi fa piacere. A volte i film che fai ti sono così davanti che non sai più…Ci vivi troppo dentro.
Sul film non voglio aggiungere nulla, qualsiasi altra parola spesa a riguardo sarebbe portatrice sana di spoiler.
Il punto sul quale l’opera mi ha fatto però riflettere è quella che io chiamo “Legge della compensazione”: ciò che fai o non fai ti ritorna sempre indietro a boomerang con interessi composti.
Per quanto riguarda la genesi di un capolavoro sono invece giunto a una conclusione. Non ho più dubbi: umiltà e vera arte vanno di pari passo.
L’opera presuntuosa gronda i “mamma guarda quanto sono bravo”, mentre l’artista umile si rende conto negli anni che l’arte, la sua arte per la quale ha combattuto e dato la vita, non è esattamente tutto, soffre terribilmente di questa realizzazione e cessa di tallonare il capolavoro. Forse è più appagante quella verità che affiora sulle labbra dei tuoi cari amici una sera a cena, lo sguardo imperioso di una figlia raggiante, la calma dopo tutte le tempeste. E in quel momento ridimensiona l’arte e abbraccia il suo lavoro con sublime serenità: ha scoperto a caro prezzo che la sua adorata pittura, scrittura e musica non sono altro che una seconda lingua donatagli per parlare meglio al mondo di cose fuori del mondo; quell’istante unico dove il divino trova uno spiraglio nell’ego dell’artista ed entra in punta di piedi nel suo lavoro guidando il pennello di Michelangelo, che affranto sotto la Sistina ha improvvisamente la sensazione, commosso e grato, di non essere più solo.
Un’ultima cosa: Tornatore, grazie. E ad maiora. Ma sì, ad maiora.
Manuel de Teffé