“C’era una volta a Roma”: Gli ANNI DELLA DOLCE VITA TRAVOLTI DALL’EPOPEA DEL WESTERN ALL’ITALIANA

Sono felice e commosso di poter annunciare l’imminente uscita del mio romanzo: “C’era una volta a Roma”, opera basata su una pagina di costume italiano mai narrata e adesso presentata, per la prima volta, in tutta la sua leggendaria impertinenza: i surreali anni in cui, come industria, noi italiani siamo entrati a gamba tesa nella narrativa americana iniziando a produrre film western con piglio garibaldino, come se non ci fosse un domani. Un po’ come se gli eschimesi si intestassero per un decennio la Pizza Margherita con struggente nonchalance.

Come depositario di un’epopea che vide Dolce Vita tingersi di West, ho deciso in questi ultimi due anni di domare una tempesta di ricordi impetuosi legati a questa follia: il western all’italiana, universalmente noto col marchio DOC di “Spaghetti Western”.

“C’era una volta a Roma” è un romanzo ispirato alle vicende artistiche e familiari di mio padre, Antonio de Teffé von Hoonholtz, attore romano di origine prussiana che, letteralmente a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, fu protagonista di ben 27 film western con il nome d’arte di Anthony Steffen. Django il bastardo, Pochi dollari per Django, Sette Dollari sul Rosso, Arriva Sabata, Apocalisse Joe e Un treno per Durango, sono alcuni tra i suoi titoli più celebri.
Nel Settembre del 2007, durante la retrospettiva organizzata da Quentin Tarantino al Festival di Venezia su questo genere, ebbi l’onore di presentare al pubblico Una lunga fila di croci del regista Sergio Garrone, presente in sala, e vedere per la prima volta mio padre sul grande schermo. Ammirare per la prima volta questo artista al cinema. Da quel momento, iniziai lentamente a rimettere insieme uno stormo di memorie fantasmagoriche legate alla nascita di questo filone cinematografico.

“C’era una volta a Roma” narra di un mondo che ho ricevuto in eredità: la Roma del 1965, la rivoluzione dello spaghetti western calata nella Dolce Vita, gli incredibili personaggi orbitanti attorno a quel periodo. Tutto ciò che ho visto, sentito, respirato e intuito sin da bambino, è qui, dentro questo libro. Tutti gli incontri ed avvenimenti più recenti della mia vita mi indicavano che dovevo iniziare a ricomporre quel mosaico inverosimile, che dovevo iniziare a svuotare il sacco… E allora, come ammonisce John Ford nel suo inequivocabile “PRINT THE LEGEND!” sul finale di The Man Who Killed Liberty Valance, ho deciso di sedermi, scrivere la leggenda e darla alle stampe. 

Ringrazio l’editore Michele Caccamo, che con la sua Readaction Editrice Roma ha creduto al libro a scatola chiusa su mio pitch telegrafico telefonico. I grandi maestri Enzo Castellari e Sergio Garrone, il mitico Terence Hill, e l’intramontabile Gianni Garko, i primissimi che ho fatto partecipi della storia e a palesarmi il loro entusiasmo. L’amico Andrea Girolami che, con le sue rassegne cinematografiche, mi ha fatto rivivere il sogno. Non stavo nella pelle, prima di iniziare l’avventura ho ritenuto di buon auspicio raccontarla subito ai protagonisti di quel tempo per una sorta di tributo affettuoso, per mettere al corrente “tutta la famiglia western” di un avvenimento in fieri, per avere la loro “benedizione”. Non dimenticherò mai le parole di Enzo Castellari (che mia ha anche regalato la postfazione del romanzo) quando, brillante e serissimo, ringiovanito davanti ai miei occhi di 50 anni dell’entusiasmo, esclamò: “… È la storia che tutti stanno aspettando!”

La storia? Eccola!

Siamo nella Roma del 1965, quando Roma era più grande di tutti gli anni ’60 messi insieme. Nel pieno della Dolce Vita e delle proteste contro la guerra in Vietnam. Per un Pugno di Dollari di Sergio Leone ha appena avuto un successo planetario e lancia un genere esplosivo: IL WESTERN ALL’ITALIANA. Il mondo del cinema è in fibrillazione: tutti vogliono salire sul carro del vincitore costruito dal regista romano… Sorgono, come funghi, improbabili case di produzione tutte desiderose di cimentarsi nella nuova moda; tra queste, la più scalpitante è “La 13 Maggio Cinematografica Srl”, ma anche un consorzio di lattai della Magliana non è da meno, con la sua pericolosissima “Chaos film”. La public relation manager dell’Hotel Hilton studia i mercati e cerca di convincere il suo uomo ad abbracciare il nuovo filone.
“C’era una volta a Roma” intreccia le vicende di un aristocratico attore teatrale shakespeariano che snobba il cinema da troppo tempo, di un guru della recitazione russa, un regista ebreo narcolettico e un anziano imprenditore con un ultimo grande sogno, quello di trasformare, prima di morire, il suo scombiccherato manoscritto nel western: “NIENTE DOLLARI PER DJANGO”.
Messi insieme dal destino grazie a una promessa perfetta, un tributo segreto sotto forma di film e un’irresistibile preghiera di abbandono, questi bizzarri individui iniziano a procedere imperterriti come le ferrovie della Union Pacific in costruzione verso la meta comune: la frontiera WEST in Almeria, il deserto spagnolo eletto a set universale dopo il capolavoro di Leone.

“Anto’, qui li vogliono zozzi e cattivi, tu che c’azzecchi col pistolero selvaggio?” Domanda l’agente infingardo al meno cinematografico dei suoi attori in scuderia, il barone Antonio de Teffé, tentando i tutti i modi di dissuadere il colto teatrante dal partecipare ai famigerati “provini per cowboy”. Di fatto mio padre, prima di divenire Anthony Steffen, visse una vera e propria odissea… nessuno, ma proprio nessuno, lo riteneva adatto a quel tipo di ruolo così “realista”, e a ragione… Allontanato da Sergio Leone, scartato ovunque per la sua postura troppo sofisticata e un taglio attoriale smaccatamente accademico, questo “dandy romano” alto un metro e novanta sembrava non avere niente a che spartire col mondo spietato dei rudi pistoleri americani… Finché un giorno, su stratagemma di mia madre, lo scapolone dei Parioli si fece scattare una grintosa foto in bianco e nero e la spedì a 50 produzioni capitoline con i francobolli dello Stato del Vaticano. Dietro la foto, un nome altisonante battuto a macchina su un’etichetta color panna:

ANTHONY STEFFEN – Actor –
Momentarily in Rome.
Represented exclusively by Tonya Lemons,
Hotel Hilton – Rome

Siamo nel 1965, ancora non c’è internet e di fact checker neanche l’ombra: quando i romani estrassero dalle giganti buste papali il volto grintoso di un uomo durissimo sotto uno Stetson a falde larghe e lessero il nome di un americano “momentaneamente” a Roma, si mobilitarono in massa per accaparrarsi quello che credettero una star d’oltreoceano a zonzo nell’ Urbe. E Antonio, che parlava un inglese da manuale, vinse finalmente il primo provino!

Francamente, non prevedevo di scrivere questo libro, non era in programma, è un romanzo letteralmente esplosomi dal cuore… un pezzo di cuore saltato su un pezzo di carta… 500 pagine che dopo aver consegnato, mi hanno visto steso su una poltrona a fissare per ore oltre la vetrata in salotto un punto imprecisato all’orizzonte, ansimante, senza nessuna espressione. Fino all’arrivo di una telefonata dal Sud Africa in cui l’inossidabile Corrado Passi, sensibilissimo scrittore e pilastro di Readaction editrice Roma, dopo un’ora in cui mi ripresentava, uno ad uno, tutti i personaggi dei mie 22 capitoli, mi dichiarò: “…Hai dato tutto”. Decreto che echeggia ancora nel salotto, come coccarda volante, dopo un anno e mezzo di scrittura non stop. Perché era vero. Perché non era un libro in programma, ma era un programma che mi aspettava al varco da troppo tempo e che è detonato in un momento impensabile, che guarda caso è stato proprio il momento opportuno.

Prima del covid, stavo lavorando con il produttore Carlo Macchitella a un film western da me scritto dal titolo “Django begins”. Ecco ciò a cui stavo veramente lavorando. Ricordo ancora che il buon Carlo ogni volta che arrivavo in produzione, alla sua Madeleine, mi faceva sedere al posto di comando, dietro la sua scrivania, per godersi la mia storia sdraiato sul divano… “La dobbiamo raccontare! La dobbiamo raccontare! Ma quanto ci costa! Quanto ci costerà?!” preoccupatissimo per gli investimenti già in atto sul suo film Diabolik… Insieme, alla fine non abbiamo raccontato più nulla, perché la pandemia ha messo tutto in attesa e Carlo è volato via troppo presto… Mi ricordo il suo entusiasmo e lo ringrazio per la sua gioia, per averci creduto per primo.

Così, con un film in stand by, paralizzato da lockdown planetari ma saturo di anni ’60, Dolce Vita e duelli assolati in Almeria, vedo aprirsi davanti a me una provvidenziale oasi artistica sconfinata, humus perfetto per far brillare una storia mai narrata, un decennio del costume italiano che ancora nessuno aveva narrativamente abbracciato comme il faut.

C’era una volta a Roma un attore quarantenne, che all’apice del suo sfolgorante anonimato di inutili successi teatrali, senza una lire in tasca ma con una donna che lo amava più di se stessa, dovette reinventarsi da una camera ammobiliata dei Parioli, per passare da Amleto a Django il bastardo, da Godot a Killer Kid, da Macbeth a Sabata. Un artista che mise addirittura in discussione tutta la sua formazione accademica, studiando il metodo Stanislawski con un guru di recitazione russa per risultare credibile al cinema… L’odissea di come Antonio de Teffé divenne Anthony Steffen si pone, in una timeline ideale, esattamente 4 anni prima “C’era Una Volta a Hollywood” di Quentin Tarantino, prima del dialogo in cui Brad Pitt invita Di Caprio ad andare a Roma per tentare una nuova carriera nel western italiano… Di Caprio non ne vuole sapere, questa cosa degli spaghetti western pensa sia tutta una grande farsa… “C’mon now. You ever seen an Italian western? They’re awful”. Ma Pitt controbatte: “Yeah. How many you’ve seen? One? Two?”, facendogli capire che in Italia sta accadendo qualcosa di grandioso… qualcosa da non disdegnare, che magari lo avrebbe anche rilanciato.

E già, perché negli anni ’60 siamo stati un’industria micidiale e davamo giri di pista a tutti. Perché abbiamo fatto squadra come in nessun’altra epoca, umanamente e professionalmente. C’era una volta a Roma e ci sarà, speriamo di nuovo! Buon 1965 a tutti, buon viaggio attraverso uno dei periodi più entusiasmanti, surreali e creativi della nostra storia italiana, romana, cinematografica e non solo, che vide la Dolce Vita travolta dalla rivoluzione dello spaghetti western. Perché questo romanzo é in realtà una rocambolesca storia d’amore corale che galoppa a spron battuto in tutte le direzioni e che non vede l’ora di trasformarsi in film… dal film che già è… Ci vediamo a Giugno in libreria!

P.S. Chi volesse una copia per primo con la firma dell’autore, mi scriva a manuel.deteffe@me.com

Manuel de Teffé
Writer-Director

Serata Monografica del canale Mediaset Cine34 dedicata a Anthony Steffen/Antonio de Teffé

Ringrazio il Gruppo Mediaset e particolarmente tutti a Cine34 Mediaset per la serata speciale monografica di oggi dedicata a Anthony Steffen/Antonio de Teffé, che vede alle 21:00 “Pochi Dollari per Django” dell’inossidabile Enzo Castellari, e a seguire alle 22:47 “Django il bastardo” del mitico Sergio Garrone, film scritto anche da mio padre. Grazie a tutti per il grande lavoro e questa serata storica. A più tardi!

Manueld e Teffé

TG2 Storie: La mia intervista per il lancio del Blu Ray-libro su Anthony Steffen

Il 23 Novembre è andata in onda su Raidue all’interno di “TG2 Storie” la mia intervista per il lancio di “W Django”,  curata dal giornalista  Adriano Monti Buzzetti. Rai Due ha realizzato un ottimo servizio: cinque minuti di pura sintesi narrativa. Eccoli a voi, Continue reading “TG2 Storie: La mia intervista per il lancio del Blu Ray-libro su Anthony Steffen”

QUANDO QUENTIN TARANTINO MI PRESENTÒ MIO PADRE: Il primo tributo a Anthony Steffen, RE del western europeo

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Fu grazie a Quentin Tarantino  che  potei apprezzare per la prima volta mio padre come Anthony Steffen sul grande schermo,  nel Settembre del 2007, quando fui invitato al Festival di Venezia per presentare Una lunga fila di Croci” di Sergio Garrone, durante una speciale retrospettiva western che il regista e scrittore americano aveva voluto per spararci in un sol colpo tutte le sue opere più amate del genere.

Antonio de Teffé, in arte Anthony Steffen, re indiscusso ma quasi dimenticato del cinema western europeo con ben 27 titoli da protagonista assoluto, era morto qualche anno prima, a Rio de Janeiro, abbattuto da un male assurdo, attorniato da una solitudine  spettacolare, quel tipo di sipario che  spesso cala come contrappasso redentivo su coloro che hanno battuto troppo i pezzi alla gloria del mondo per poi passare con affettata disinvoltura al lato oscuro.

Tarantino aveva ristabilito a Venezia Anthony Steffen tra gli indimenticabili, lo aveva prepotentemente strappato a una critica che lo aveva offeso,  deluso e troppo ridimensionato agli occhi del pubblico, perché artista non impegnato negli anni dell’impegno assoluto, e lo aveva adagiato su quel trono ideale che gli spettava a rigor di logica. Questo riposizionamento tarantiniano mio padre non se lo poté mai godere, ed ebbe sempre la strana sensazione di non aver fatto abbastanza perché mai  premiato dalla critica che osanna e dunque vergine di riconoscimenti intellettuali. Il suo orgoglio fu dunque perfettamente sabotato, ma questo fu in fin dei conti paradossalmente anche un bene:  l’uomo, era infatti nella vita privata anche più duro di ciò che rappresentava sullo schermo, e la critica che non conferiva coccarde gli diede anche la possibilità di rimanere con i piedi per terra e coltivare il suo lato più umano.

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Sergio Garrone e Manuel de Teffé

Quando nel 2007 al Festival di Venezia feci le veci di mio padre e  presentai grazie a Quentin il capolavoro assoluto di Sergio Garrone, fu lo stesso Sergio Garrone che mi abbracciò come un padre. Emozioni e colt: quell’estate bastò la semplice scelta editoriale di Tarantino per riabilitare in sol colpo le intere carriere di  Steffen e di Garrone, grande regista dimenticato adesso novantenne che ha appena riabbracciato il genio americano durante la prima romana di “Once Upon a Time in Hollywood” (Nemo propheta in patria sotto steroidi).

A più di dieci anni dal tributo di Venezia, finalmente, in collaborazione la francese Artus71276143_2594876097218565_496113510606962688_o film, ho la gioia di annunciare che siamo riusciti a realizzare per merito del disegnatore Curd Riedel che  ha curato tutti i contenuti, uno specialissimo cofanetto tributo a Anthony Steffen con “W Django!”, di Edward Muller, rimasterizzato in 2K: Blu Ray, DVD + un libretto di 96 pagine che ripercorre la parabola artistica e umana di un grande del cinema italiano, che dopo 67 film  ha deciso di ritirarsi per non bruciarsi le retine sotto i riflettori  e divenire cieco come il suo amico Totò. Una mia lunga intervista molto particolare,  traccia un profilo inedito di Antonio de Teffé/Anthony Steffen impreziosito da aneddoti surreali e foto mai pubblicate, una su tutti quelle del matrimonio con mia madre raggiante.

Il libro annuncia anche l’inizio di un progetto al quale sto lavorando con grande emozione come regista e scrittore, dal titolo “Django begins”, che narra le indimenticabili avvenuture di Anthony Steffen in Almeria nel 1968, film che ho rivelato per primi a Castellari e Garrone, ancora in fibrillazione per il progetto.

Nato all’ambasciata brasiliana a Roma di Piazza Navona, Antonio de Teffé aveva per caso intrapreso la carriera cinematografica come  “runner” in Ladri di Biciclette del grande De Sica. Siccome era un bello e la madre si era giocata a poker un Castello a Castiglion della Pescaia, e il padre Manuel de Teffé mio omonimo, era un campione automobilistico brasiliano che non aveva molto tempo per suo figlio, papà fece fulcro sulla sua bellezza virile per entrare nel mondo dello spettacolo e marchiarlo con la sua presenza di VIR, come si definiva lui. 60681708_2372697509436426_5071463336911044608_o

Il Western gli arrivò come un gancio dal cielo quando, a metà anni 60, durante la crisi, compreso  il vizio italico di saltare  sul carro del vincitore senza sporcarsi le mani,  Antonio de Teffé si cambiò il nome in Athony Steffen, si mise in testa un cappellaccio e si fece fare da mia madre una foto in bianco e nero da cowboy per poi spedirla a tutte le produzioni romane. Moriva il brillante Antonio e sorgeva uno spietato Anthony, spariva de Teffé e montava in sella Steffen.  Succubi di un onomatopea altisonante che  doveva nascondere una misteriosa fama stellare, tutte le produzioni lo chiamarono immediatamente e papà iniziò a girare un western dopo l’altro: talmente duro, che volevano solo lui, talmente  ingenuflesso, che doveva avere sempre ragione a prescindere, tant’è che Leone gli preferì alla fine Eastwood.

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Antonella Caramazza La Lomia e Antonio de Teffé

Per la carriera, lasciò mia madre e si consacrò all’arte, ma scoprì 20 dopo di aver fatto qualche errore micidiale che rimpianse sino alla fine: il finale di La La Land,  è la copia carbone della storia dei miei genitori. Tuttavia, mia madre lo aveva perdonato e, grazie al balsamo di quel perdono immeritato, mio padre conservò una sua originale lucidità umana. Mamma, il giorno che seppe che il suo amore stava per morire a Rio de Janeiro circondato dal nulla, nonostante fosse 15 anni più giovane, invecchiò istantaneamente di altri 15 anni e decise di morire anche lei lasciandosi andare qualche anno dopo, “come corpo morto cade”.  “In realtà sono una donna felice”, mi disse sul letto al Policlinico Gemelli, “Perché ho sposato l’uomo che amavo e ho quattro splendidi figli: ho avuto tutto”.

La nascita  al cielo di mio padre segnò una settimana indimenticabile. Quando papà ci urlò per telefono che stava male, arrivai a Rio appena in tempo  con mio fratello Luiz, giunto qualche giorno prima in avanscoperta per vedere se era tutto vero:  Django il Bastardo stava realmente su una sedia a rotelle, la maschera d’ossigeno e respiri alla Darth Vader, tanta rabbia nel cuore e persone infide e caricaturali attorno.  Come piccoli Skywalker provammo a combattere ugualmente contro la sua  cattiveria imperfetta, facendoci strada a colpi di machete nel suo passato ribelle. Feci arrivare un prete carioca per l’estrema unzione e, una volta blindatagli l’anima, gli mettemmo in grembo un laptop collegato a internet per fargli una sorpresa inaudita.

“Papà, ascoltami bene: questo è Google.  So che non sai cos’è, Luiz te l’ha  spiegato tante volte a Roma: tu scrivi qui sopra il tuo nome d’arte. Qui papà. Poi avrai una sorpresa. Non te lo ricordi? ”

“Oh! Manuel! Certo che ricordo chi sono! Papà è solo stanco!”

Django il bastardoAntonio de Teffé, ancora inviperito per aver suo malgrado subito l’estrema unzione e per un computer portatile bollente sulle ginocchia, si chinò su quello schermo luminoso e batté lentamente ANTHONY STEFFEN,  poi si bloccò, per un attimo il suo respiro si interruppe e gli occhi gli divennero quelli di un bambino di 6 anni divorato dalla meraviglia. Google gli stava caricando davanti il suo intero passato di una vita artistica:  i poster di tutti i suoi film, uno ad uno, tradotti in tutte le lingue del mondo, perfino in giapponese e finlandese, prendevano vita sotto il suo sguardo sbalordito:
“Una bara per lo sceriffo” (1965), “Perché uccidi ancora?” (1965), “Sette dollari sul Rosso” (1966), “Pochi dollari per Django” (1966), “Mille dollari sul nero” (1966), “Ringo il volto della vendetta” (1967), “Killer Kid (1967), “Un treno per Durango” (1967), “Gentleman Joe, uccidi” (1967) , “Il pistolero segnato da Dio” (1968), “I morti non si contano” (1968), “Una lunga fila di croci” (1968) , “Il suo nome gridava vendetta” (1968) “Uno straniero a Paso Bravo” (1968) “Diango il bastardo” (1969) “Garringo” (1969)  “Arizona si scatenò e li fece fuori tutti”(1970), “Arriva Sabata” (1970), “Un uomo chiamato Apocalisse Joe” (1970), “Shango la pistola infallibile” (1970), “W Django” (1971), “Lo credevano uno stinco di Santo” (1972), “Tequila” (1973)…Django il bastardo - poster Giapppnese

“Ho fatto tutto questo? Anche in Giapponese? Guardate il poster di Django il Bastardo in giapponese! Che fico… Vorrei chiamare Garrone. Ma forse è morto, meglio di no che poi mi mette tristezza. Sergio Garrone era un grande ma chi se lo ricorderà. Ah, e i preti qui non devono più mettere piede. Dicono cose strane.”

Papà passò un pomeriggio intero guardare e riguardarsi tutti i poster, migliaia, divenendo sempre più buono in viso, fino a ritrasformarsi definitivamente nell’Antonio che conobbe mamma. E noi lo ricordiamo così:  riunite  le  forze rimaste, guardò me e mio fratello Luiz formulando le ultime sue parole sensate mentre allungava le braccia dal letto, in alto, verso i nostri visi: “Amori miei” .

Sono passati quasi 15 anni da quel Giugno del 2004, e adesso spuntano nella mia vita gli amici che lo hanno amato davvero, persone come l’artista francese Curd Riedel primo promotore del Blu Ray tributo, i mitici registi italiani amati da Tarantino come Enzo Castellari e Sergio Garrone e molti altri.

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La mia ultima foto di mio padre a Rio

Persone  che me lo raccontano con gli occhi di chi lo ha conosciuto veramente, lontani da quella critica che Tarantino ha voluto criticare così elegantemente in “Once Upon a time in Hollywood” attraverso un sottilissimo dialogo  in macchina tra Brad Pitt e Di Caprio, uno scambio di battute quasi per gli addetti ai lavori che si interpreta esattamente al contrario e che suona più o meno così:

PITT: E’ un bel po’ che non faccio la controfigura a tempo pieno e per come la vedo io,  andare a Roma a girare dei film non è quella gran condanna a morte che a quanto pare tu pensi che sia. DI CAPRIO: Andiamo, hai mai visto uno dei loro western? Sono orrendi! È una farsa totale!  PITT: Sì? E’ quanti ne hai visti, uno? DI CAPRIO: Abbastanza, d’accordo? A nessuno piacciono gli spaghetti western…”

E voi? Quanti ne avete visti?

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Manuel de Teffé e Enzo Castellari

Uno?

“W django!”

Manuel de Teffé

Writer/Director