Pubblico il commento dello scrittore Mauro Germani, poeta, scrittore, saggista, fondatore e direttore responsabile della rivista di scrittura, pensiero e poesia “margo” dal 1988 al 1992.
Manuel de Teffé, C’era una volta a Roma, Readaction, 2023
Il romanzo di Manuel De Teffé, C’era una volta a Roma, ci riporta agli inizi degli anni Sessanta, quando il cinema italiano, dopo l’uscita nel 1964 di Per un pugno di dollari, non sarà più lo stesso. Il film, realizzato con un budget piuttosto basso, è firmato da Bob Robertson, ma è in realtà Sergio Leone, mentre il protagonista è Clint Eastwood, attore americano pressoché sconosciuto. Molti interpreti sono italiani, però i loro nomi sono celati dietro pseudonimi americaneggianti, come nel caso del coprotagonista Gian Maria Volonté, che usa lo pseudonimo di John Wells. Persino la colonna sonora è attribuita a un certo Dan Savio, dietro il quale si nasconde il vero autore, cioè il maestro Ennio Morricone. Sorprendendo tutti, il film in Italia incassa, in un anno di programmazione, quasi due miliardi di lire.
Comincia così la straordinaria avventura del western all’italiana, che vedrà la produzione di oltre cinquecento film, naturalmente non tutti di qualità, anche se parecchi di essi, in anni recenti, sono stati giustamente rivalutati e apprezzati grazie al contributo di Quentin Tarantino. Certo è che dopo Per un pugno di dollari, la rivoluzione cinematografica di Sergio Leone diviene per molti registi e sceneggiatori romani un modello da seguire. Vengono adottate le modalità espressive più appariscenti del suo cinema: inquadrature ricche di dettagli, primissimi e primi piani, personaggi che lottano per la loro sopravvivenza e agiscono perlopiù motivati dalla vendetta o dalla sete di denaro, violenza esasperata, dialoghi brevi, sarcastici, a volte – nei casi migliori – addirittura aforistici. Artigiani del cinema si danno da fare, cercano nuove soluzioni per sorprendere il pubblico, elaborano situazioni e personaggi originali, agli antipodi del western americano tradizionale. Nascono i protagonisti di un filone popolare irripetibile, dominato dai vari Ringo, Django, Sartana, Sabata, con i loro abiti “vissuti” o stravaganti (poncho, mantelli neri, spolverini): essi spesso appaiono avvolti da un’aura mitica e quasi mistica, oppure sono eroi che vivono una solitudine estrema, cupa, ossessionati dal proprio tragico passato.
Manuel de Teffé, figlio di Antonio de Teffé, in arte Anthony Steffen, uno dei maggiori protagonisti del western all’italiana (ne interpretò ben ventisette), rievoca il periodo in cui suo padre, fino ad allora attore teatrale, decide di dedicarsi al cinema western emergente, grazie alle sollecitazioni della fidanzata che diverrà poi sua moglie, Antonella. Con una narrazione assai avvincente, che va aldilà della semplice biografia – la quale viene trasfigurata per comporre un vero e proprio romanzo – de Teffé ci consegna un’opera al tempo stesso godibile e stratificata. Elementi reali e d’invenzione si fondono in modo sorprendente e caratterizzano con efficacia il periodo storico della vicenda e i personaggi coinvolti.
Si possono rinvenire nel libro almeno quattro fattori o nuclei narrativi, che interagiscono tra loro e che concorrono alla struttura del libro.
Il primo, cioè quello centrale, è costituito dalle figure di Antonio de Teffé e della moglie. La loro è una storia d’amore appassionata e contraddistinta da un mix di intelligenza, ironia e cultura. I loro dialoghi e le loro lettere hanno un che di scoppiettante come nelle migliori commedie brillanti. Sarà proprio Antonella a convincere Antonio a dedicarsi al cinema western e a inventare lo pseudonimo di Anthony Steffen. Pur nelle loro differenze caratteriali, essi formano una coppia in qualche modo irresistibile, di rara e raffinata complicità.
C’è poi il secondo elemento, quello collettivo, cioè propriamente storico, in cui agiscono i personaggi: è l’ambiente degli anni Sessanta, con gli entusiasmi e le contraddizioni di quel periodo: da una parte le proteste contro la guerra in Vietnam, le paure della guerra fredda e delle minacce nucleari, dall’altra le speranze dei giovani hippy e l’eccitazione dei cineasti romani per le produzioni western e il sogno del successo. È un piano che fa da sfondo a tutta la vicenda, ma che non deve essere considerato secondario, anzi: esso determina il clima particolare che le pagine del libro trasmettono al lettore.
Vi sono inoltre i personaggi che ruotano attorno ai due protagonisti: un guru di recitazione russa, che si basa sul metodo Stanislavskij, un regista ebreo di documentari, affetto da narcolessia, e un anziano imprenditore di grissini che vuole realizzare un film tratto dal suo manoscritto segreto: Niente dollari per Django. Sono personaggi ben calati nel loro ambiente e ben delineati: muovono la storia, con il loro linguaggio, le loro gag, il loro modo di essere, che si confronta con il mondo diverso e aristocratico del protagonista, il futuro Anthony Steffen del cinema western.
Infine, a ben vedere, si può cogliere tra le pieghe del libro una dimensione più nascosta, misteriosa. Abbastanza frequenti sono, qua e là, i riferimenti a Dio, soprattutto nella relazione tra Antonio, che si dichiara non credente, e Antonella, che invece è assai devota. Non c’è, però, tra i due una contrapposizione schematica, e lo stesso ateismo di Antonio sembra talvolta cedere alla richiesta di un aiuto superiore, a una domanda spirituale. E leggendo attentamente il romanzo non si può non avvertire una sorta di soffio magico, che permea l’intera storia narrata. Ciò non riguarda solo l’avventura cinematografica del western all’italiana, con quanto di ingegno e di creatività ha saputo concentrare tra gli anni Sessanta e Settanta (condizionando, tra l’altro, la stessa cinematografia western americana, che si è trovata inaspettatamente debitrice dei nostri film), ma anche i personaggi principali del romanzo: eroi, in qualche modo, predestinati, colti dall’autore agli inizi della loro eccezionale impresa. Un’avventura davvero senza precedenti, in cui Anthony Steffen sarà uno dei volti più popolari del nostro cinema western. Questo romanzo è indubbiamente anche un’occasione per ricordarlo e riscoprirlo come merita.
Pubblico lo spassoso commento di Cristina Chinaglia, attrice e celebre stand-up comedian, che ha letto “C’era una volta a Roma” e scritto queste parole… Enjoy!
“Fiu fiu fiu fiu”, il fischio di Alessandroni, la chitarra elettrica della colonna sonora di Morricone ed è subito western. “Marcello, Marcello, come here!” cinguetta Anita Ekberg nella fontana di Trevi ed è subito ‘la dolce vita’. Il tram numero 3 che sferraglia pigramente ai Parioli ed è subito Roma. O forse sarebbe meglio dire “C’era una volta a Roma”. Di cosa sto parlando? Parlo del primo manoscritto in forma di romanzo di Manuel de Teffé. Regista, sceneggiatore, scrittore. L’ho letto e me ne sono innamorata. Del libro? No, non del libro, cioè sì, del libro, cioè no, anche…in realtà, non so come dirglielo ma proprio del protagonista: Antonio de Teffé von Hoonholtz, in arte ANTHONY STEFFEN. Che, come potrete notare dal cognome ricorrente, è il padre dello scrittore.
Ma procediamo con ordine: chi è Anthony Steffen? Un figo atomico. Per chi non lo sapesse è stato protagonista al cinema nel periodo dei cosiddetti “spaghetti western”, un genere inizialmente poco valorizzato, per arrivare poi a rappresentarci in tutto il mondo. Se siete appassionati di cinema sapete già tutto, se non siete appassionati di cinema cercatevi l’epopea del ‘western all’italiana’. In ogni caso Anthony Steffen è un figo atomico, interprete anche del leggendario Django! In “C’era una volta a Roma” si racconta la sua storia, davvero degna di un romanzo. Si viene catapultati nella Roma della dolce vita, degli attori di teatro molto bohémien, di una Roma palpitante, brulicante, che riemerge malconcia dalla guerra con tanta voglia di vita, che conserva ancora la sua anima, anche se l’America e la Russia si fanno sentire, la guerra fredda, la protesta pacifista contro la guerra del Vietnam, sfiorano la vita di Antonio. Questo però è il quadro storico, lo sfondo.
Antonio incarna l’Eroe. Antonio è un personaggio epico, che ti prende per mano e che sembra rassicurarti perché con lui tutto appare possibile. E’ bello, appassionato, è uno di quei personaggi da film che non pensi possano esistere nella realtà e invece esistono. Cioè tutte noi vediamo Brad Pitt sulla pellicola ma non abbiamo mai davvero pensato che esistesse davvero, su. Quel genere lì. Non lo lasceresti mai perché anche le sue fragilità le senti dentro come se improvvisamente diventassero una forza. La tua forza.
Con Antonio c’è il suo grande amore, Antonella La Lomia. Una creatura divina che ricorda i personaggi interpretati da Audrey Hepburn. A me che piace sognare inutilmente, contro ogni pronostico, con un ottimismo da Labrador abbandonato in autostrada pronto ad essere adottato, ha mandato in visibilio. Ho amato spiarli, stare con loro mentre scherzano, mentre affrontano le sfide della vita e pensano, tra una trovata (soprattutto di Antonella) e l’altra, che “domani è un altro giorno”, sì, ma un giorno d’amore. Belli, belli in modo assurdo.
Intorno a loro però c’è un mondo: una sfilata di personaggi incredibili, divertenti e gustosi, imperdibili e una scrittura, quella del de Teffé figlio, che fornisce certamente una ‘prova d’amore’ nei confronti di un padre non convenzionale ma che gioca, soprattutto, sapientemente, con la sua penna funambolica, ricca di immagini e di un immaginario mai banale. Dal registro affettato di una Roma bene che non c’è più, ovvero che non c’è più allo stesso modo, che ancora risente di un’aura fin de siècle, al romanesco gustosissimo di personaggi che sembrano compagni di gomitate del Belli. Compagni di scena avidi di vita, produttori cinematografici esilaranti, marchese e speroni da cow-boy, manifesti strappati di un Cyrano passato, “C’era una volta a Roma” ci porta in un mondo rutilante, in continua trasformazione, come un’improvvisazione di Ella Fitzgerald, un mondo svanito nel nulla che l’autore riporta a galla come se lo stessimo guardando proiettato sul muro di un palazzo, nella piazza del paese, seduti su una sediolina di paglia. Quella è un’epoca che vive di una nostalgia ancora pulsante. Che secolo, il Novecento, che secolo. Forse la dimensione di questo manoscritto è la dimensione del sogno. E tutto quello che fa sognare non è ciò che ci porta fuori dalla realtà ma ciò che ci dà la forza, a volte la follia, di cambiarla.
Il 7 dicembre ho ricevuto a Westminster, nella House of Commons, un Bond Street Award per il romanzo “C’era una volta a Roma”. Sono riuscito dunque a portare un po’ di romanità nel cuore di Londra e condivido questa gioia con voi tutti. Vi ringrazio di cuore per tutto l’affetto e l’attenzione con il quale avete accolto il mio libro, che adesso inizia a viaggiare oltre i confini italiani. Mai avrei immaginato che lo scriverlo mi riavrebbe portato nel cuore di una città che amo e dalla quale ero assente da una decina di anni. Grazie a Gian Luigi Ferretti, al presidente Giuseppe Masella e al comitato generosissimo dei Bond Street Awards, che ci ha accolto a Londra facendoci passare due giornate indimenticabili, in puro stile British. Grazie a tutti i nuovi amici che sostengono e diffondono la cultura romana e italiana nel mondo. Vi voglio bene. Manuel www.ceraunavoltaaroma.net
Il 6 e il 7 dicembre si svolgeranno a Londra i Bond Street Awards. Quest’anno grazie al romanzo “C’era una volta a Roma”, sono stato inaspettatamente insignito di questo riconoscimento che celebra il lavoro. Quando mi è arrivata la notizia, la cosa mi è parsa incredibile… la mia gioia risiede nel fatto che finalmente avrò una grande occasione per ritornare a Londra e di rivedere amici che non vedevo da anni e… di fare sbarcare un po’ di romanità in Gran Bretagna.
“C’era una volta a Roma”, il mio romanzo odissea ambientato nel 1965 sulle rocambolesche avventure che videro il teatrante Antonio de Teffé divenire l’Anthony Steffen delle tele, è stato finalmente presentato in anteprima a Palazzo Merulana, il 23 Giugno, durante un pomeriggio che oserei definire “storico”. Grazie a un Giorgio Pacifici (giornalista RAI moderatore dell’evento) in splendida forma, Patrizia Notarnicola e Benedetta Arena di Palazzo Merulana, siamo riusciti a riempire due ore serrate di commozione, divertimento e spettacolo… Sono particolarmente felice si aver potuto riunire due glorie del cinema western all’italiana: il leggendario regista Enzo G. Castellari e l’inossidabile Gianni Garko, che con i loro 180 anni hanno movimentato l’atmosfera, raccontandoci l’incredibile. Chissà dove hanno nascosto la loro età. Palpabile l’emozione generale, soprattutto quando la mia amica attrice Cristina Chinaglia mi ha onorato leggendo due brani del mio libro e Cesare Rascel ha improvvisato uno straordinario regalo cantandoci “Arrivederci Roma” del padre. Grazie, grazie, grazie a tutti! Manuel de Teffé
Sono felice e commosso di poter annunciare l’imminente uscita del mio romanzo: “C’era una volta a Roma”, opera basata su una pagina di costume italiano mai narrata e adesso presentata, per la prima volta, in tutta la sua leggendaria impertinenza: i surreali anni in cui, come industria, noi italiani siamo entrati a gamba tesa nella narrativa americana iniziando a produrre film western con piglio garibaldino, come se non ci fosse un domani. Un po’ come se gli eschimesi si intestassero per un decennio la Pizza Margherita con struggente nonchalance.
Come depositario di un’epopea che vide Dolce Vita tingersi di West, ho deciso in questi ultimi due anni di domare una tempesta di ricordi impetuosi legati a questa follia: il western all’italiana, universalmente noto col marchio DOC di “Spaghetti Western”.
“C’era una volta a Roma” è un romanzo ispirato alle vicende artistiche e familiari di mio padre, Antonio de Teffé von Hoonholtz, attore romano di origine prussiana che, letteralmente a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, fu protagonista di ben 27 film western con il nome d’arte di Anthony Steffen. Django il bastardo, Pochi dollari per Django, Sette Dollari sul Rosso, Arriva Sabata, Apocalisse Joe e Un treno per Durango, sono alcuni tra i suoi titoli più celebri. Nel Settembre del 2007, durante la retrospettiva organizzata da Quentin Tarantino al Festival di Venezia su questo genere, ebbi l’onore di presentare al pubblico Una lunga fila di croci del regista Sergio Garrone, presente in sala, e vedere per la prima volta mio padre sul grande schermo. Ammirare per la prima volta questo artista al cinema. Da quel momento, iniziai lentamente a rimettere insieme uno stormo di memorie fantasmagoriche legate alla nascita di questo filone cinematografico.
“C’era una volta a Roma” narra di un mondo che ho ricevuto in eredità: la Roma del 1965, la rivoluzione dello spaghetti western calata nella Dolce Vita, gli incredibili personaggi orbitanti attorno a quel periodo. Tutto ciò che ho visto, sentito, respirato e intuito sin da bambino, è qui, dentro questo libro. Tutti gli incontri ed avvenimenti più recenti della mia vita mi indicavano che dovevo iniziare a ricomporre quel mosaico inverosimile, che dovevo iniziare a svuotare il sacco… E allora, come ammonisce John Ford nel suo inequivocabile “PRINT THE LEGEND!” sul finale di The Man Who Killed Liberty Valance, ho deciso di sedermi, scrivere la leggenda e darla alle stampe.
Ringrazio l’editore Michele Caccamo, che con la sua Readaction Editrice Roma ha creduto al libro a scatola chiusa su mio pitch telegrafico telefonico. I grandi maestri Enzo Castellari e Sergio Garrone, il mitico Terence Hill, e l’intramontabile Gianni Garko, i primissimi che ho fatto partecipi della storia e a palesarmi il loro entusiasmo. L’amico Andrea Girolami che, con le sue rassegne cinematografiche, mi ha fatto rivivere il sogno. Non stavo nella pelle, prima di iniziare l’avventura ho ritenuto di buon auspicio raccontarla subito ai protagonisti di quel tempo per una sorta di tributo affettuoso, per mettere al corrente “tutta la famiglia western” di un avvenimento in fieri, per avere la loro “benedizione”. Non dimenticherò mai le parole di Enzo Castellari (che mia ha anche regalato la postfazione del romanzo) quando, brillante e serissimo, ringiovanito davanti ai miei occhi di 50 anni dell’entusiasmo, esclamò: “… È la storia che tutti stanno aspettando!”
La storia? Eccola!
Siamo nella Roma del 1965, quando Roma era più grande di tutti gli anni ’60 messi insieme. Nel pieno della Dolce Vita e delle proteste contro la guerra in Vietnam. Per un Pugno di Dollari di Sergio Leone ha appena avuto un successo planetario e lancia un genere esplosivo: IL WESTERN ALL’ITALIANA. Il mondo del cinema è in fibrillazione: tutti vogliono salire sul carro del vincitore costruito dal regista romano… Sorgono, come funghi, improbabili case di produzione tutte desiderose di cimentarsi nella nuova moda; tra queste, la più scalpitante è “La 13 Maggio Cinematografica Srl”, ma anche un consorzio di lattai della Magliana non è da meno, con la sua pericolosissima “Chaos film”. La public relation manager dell’Hotel Hilton studia i mercati e cerca di convincere il suo uomo ad abbracciare il nuovo filone. “C’era una volta a Roma” intreccia le vicende di un aristocratico attore teatrale shakespeariano che snobba il cinema da troppo tempo, di un guru della recitazione russa, un regista ebreo narcolettico e un anziano imprenditore con un ultimo grande sogno, quello di trasformare, prima di morire, il suo scombiccherato manoscritto nel western: “NIENTE DOLLARI PER DJANGO”. Messi insieme dal destino grazie a una promessa perfetta, un tributo segreto sotto forma di film e un’irresistibile preghiera di abbandono, questi bizzarri individui iniziano a procedere imperterriti come le ferrovie della Union Pacific in costruzione verso la meta comune: la frontiera WEST in Almeria, il deserto spagnolo eletto a set universale dopo il capolavoro di Leone.
“Anto’, qui li vogliono zozzi e cattivi, tu che c’azzecchi col pistolero selvaggio?” Domanda l’agente infingardo al meno cinematografico dei suoi attori in scuderia, il barone Antonio de Teffé, tentando i tutti i modi di dissuadere il colto teatrante dal partecipare ai famigerati “provini per cowboy”. Di fatto mio padre, prima di divenire Anthony Steffen, visse una vera e propria odissea… nessuno, ma proprio nessuno, lo riteneva adatto a quel tipo di ruolo così “realista”, e a ragione… Allontanato da Sergio Leone, scartato ovunque per la sua postura troppo sofisticata e un taglio attoriale smaccatamente accademico, questo “dandy romano” alto un metro e novanta sembrava non avere niente a che spartire col mondo spietato dei rudi pistoleri americani… Finché un giorno, su stratagemma di mia madre, lo scapolone dei Parioli si fece scattare una grintosa foto in bianco e nero e la spedì a 50 produzioni capitoline con i francobolli dello Stato del Vaticano. Dietro la foto, un nome altisonante battuto a macchina su un’etichetta color panna:
ANTHONY STEFFEN – Actor – Momentarily in Rome. Represented exclusively by Tonya Lemons, Hotel Hilton – Rome
Siamo nel 1965, ancora non c’è internet e di fact checker neanche l’ombra: quando i romani estrassero dalle giganti buste papali il volto grintoso di un uomo durissimo sotto uno Stetson a falde larghe e lessero il nome di un americano “momentaneamente” a Roma, si mobilitarono in massa per accaparrarsi quello che credettero una star d’oltreoceano a zonzo nell’ Urbe. E Antonio, che parlava un inglese da manuale, vinse finalmente il primo provino!
Francamente, non prevedevo di scrivere questo libro, non era in programma, è un romanzo letteralmente esplosomi dal cuore… un pezzo di cuore saltato su un pezzo di carta… 500 pagine che dopo aver consegnato, mi hanno visto steso su una poltrona a fissare per ore oltre la vetrata in salotto un punto imprecisato all’orizzonte, ansimante, senza nessuna espressione. Fino all’arrivo di una telefonata dal Sud Africa in cui l’inossidabile Corrado Passi, sensibilissimo scrittore e pilastro di Readaction editrice Roma, dopo un’ora in cui mi ripresentava, uno ad uno, tutti i personaggi dei mie 22 capitoli, mi dichiarò: “…Hai dato tutto”. Decreto che echeggia ancora nel salotto, come coccarda volante, dopo un anno e mezzo di scrittura non stop. Perché era vero. Perché non era un libro in programma, ma era un programma che mi aspettava al varco da troppo tempo e che è detonato in un momento impensabile, che guarda caso è stato proprio il momento opportuno.
Prima del covid, stavo lavorando con il produttore Carlo Macchitella a un film western da me scritto dal titolo “Django begins”. Ecco ciò a cui stavo veramente lavorando. Ricordo ancora che il buon Carlo ogni volta che arrivavo in produzione, alla sua Madeleine, mi faceva sedere al posto di comando, dietro la sua scrivania, per godersi la mia storia sdraiato sul divano… “La dobbiamo raccontare! La dobbiamo raccontare! Ma quanto ci costa! Quanto ci costerà?!” preoccupatissimo per gli investimenti già in atto sul suo film Diabolik… Insieme, alla fine non abbiamo raccontato più nulla, perché la pandemia ha messo tutto in attesa e Carlo è volato via troppo presto… Mi ricordo il suo entusiasmo e lo ringrazio per la sua gioia, per averci creduto per primo.
Così, con un film in stand by, paralizzato da lockdown planetari ma saturo di anni ’60, Dolce Vita e duelli assolati in Almeria, vedo aprirsi davanti a me una provvidenziale oasi artistica sconfinata, humus perfetto per far brillare una storia mai narrata, un decennio del costume italiano che ancora nessuno aveva narrativamente abbracciato comme il faut.
C’era una volta a Roma un attore quarantenne, che all’apice del suo sfolgorante anonimato di inutili successi teatrali, senza una lire in tasca ma con una donna che lo amava più di se stessa, dovette reinventarsi da una camera ammobiliata dei Parioli, per passare da Amleto a Django il bastardo, da Godot a Killer Kid, da Macbeth a Sabata. Un artista che mise addirittura in discussione tutta la sua formazione accademica, studiando il metodo Stanislawski con un guru di recitazione russa per risultare credibile al cinema… L’odissea di come Antonio de Teffé divenne Anthony Steffen si pone, in una timeline ideale, esattamente 4 anni prima “C’era Una Volta a Hollywood” di Quentin Tarantino, prima del dialogo in cui Brad Pitt invita Di Caprio ad andare a Roma per tentare una nuova carriera nel western italiano… Di Caprio non ne vuole sapere, questa cosa degli spaghetti western pensa sia tutta una grande farsa… “C’mon now. You ever seen an Italian western? They’re awful”. Ma Pitt controbatte: “Yeah. How many you’ve seen? One? Two?”, facendogli capire che in Italia sta accadendo qualcosa di grandioso… qualcosa da non disdegnare, che magari lo avrebbe anche rilanciato.
E già, perché negli anni ’60 siamo stati un’industria micidiale e davamo giri di pista a tutti. Perché abbiamo fatto squadra come in nessun’altra epoca, umanamente e professionalmente. C’era una volta a Roma e ci sarà, speriamo di nuovo! Buon 1965 a tutti, buon viaggio attraverso uno dei periodi più entusiasmanti, surreali e creativi della nostra storia italiana, romana, cinematografica e non solo, che vide la Dolce Vita travolta dalla rivoluzione dello spaghetti western. Perché questo romanzo é in realtà una rocambolesca storia d’amore corale che galoppa a spron battuto in tutte le direzioni e che non vede l’ora di trasformarsi in film… dal film che già è… Ci vediamo a Giugno in libreria!
P.S. Chi volesse una copia per primo con la firma dell’autore, mi scriva a manuel.deteffe@me.com
“Let your plans be dark and impenetrable as night, and when you move, fall like a thunderbolt.” Esordì il papà attore in perfetta pronuncia british al telefono, poi il silenzio e il soffio delle sue narici sulla cornetta.
Quella mattina stavo ricurvo sulle ginocchia e i miei sedicianni appena scartati, aprendo felicissimo una pellicola Ilford 400 iso in bianco e nero pronto a caricare la mia nuova Dana 120, quando mi arrivò la telefonata di mio padre che mi svoltò l’estate. Dopo il solito incipit da “l’Arte della guerra” di Sun Tzu che sostituiva da tempo i suoi buongiorno, continuò così: “Manuel, preparati, papà passa a prenderti alle 10:30. Andiamo a rapinare una banca. Vestiti bene e niente ciuffi selvaggi.” Poi una pausa e l’attesa del suo respiro sulla cornetta che mi arrivava come il rantolo di un vento alieno sul deserto del Gobi. In un angolo del salotto mia madre stava dipingendo un quadro astratto con delle bombolette spray fumando una marlboro rossa, accanto a lei mio fratello piccolo si spupazzava beato Donkey Kong Junior su un mini Nintendo.
Mio padre aspettò incuriosito una mia reazione che tardò a venire, perché per lo stordimento emotivo, nella mia mente i termini “rapina” e “ciuffi” figliavano combinazioni caleidoscopiche di significati inutili che stavo vagliando con sospettosa flemma: rapinare ciuffi , pettinare banche, la rapina dei pettini, il ciuffo vendicatore… La banca? Cosa vorrà esattamente dire papà? Diedi un sorso al mio lattefreddomacchiato e rimasi in ascolto ricurvo sulla macchina fotografica aperta, mentre il suo respiro scrutatore mi drammatizzava l’attimo soffiando dalle narici sui buchi della cornetta. Da una parte Darth Vader che sibilava oscuro dal Fleming, dall’altra parte della stanza una madre che intuiva tutto attraverso la nube di una marlboro rossa che si innalzava da dietro un quadro. Non sapevo cosa dire e mi sentivo sotto osservazione, quel rantolo di vento naricioso paterno sulla cornetta mi stava interpellando. L’iride di mamma velato di fumo fece capolino dal perimetro ovest della tela. L’occhiata sincrona e cisposa di mio fratello incuriosito. L’ultimo pezzo di torta mimosa sul tavolo.
“Ti sei perso nei tuoi pensieri, vero? Ma adesso papino tuo ti stana e ti mostra come si piega il Banco di Roma. Oggi. Lo mettiamo insieme in ginocchio. Noi due. Sarai mio complice. Ci stai?”
“Ok.” Vagheggiai atono per non destare l’attenzione di nessuno.
“Bene! Mi piace quando mi dai la risposta giusta senza pensarci. Vestiti bene e niente maglioni ciancicati con le toppe. Il mio ciancicone.”
“Va bene, papà.”
“Let your plans be dark and impenetrable as night, and when you move, fall like a thunderbolt.” Ripeté assaporandosi la sua nuova massima preferita di Sun Tzu, stavolta in perfetto inglese americano, sempre sotto il torchio del suo perfezionismo attoriale stile Strasberg. “Like a Thunder…”
Attaccai il telefono e finii di caricare la macchina fotografica. Mia madre sicilianamente non mi fece nessuna domanda e io la fissai senza darle romanamente nessuna risposta. Ora, io di banche non ne avevo ancora rapinate, ma detta da mio padre, la cosa aveva i suoi misteriosi margini di fattibilità. Corsi in bagno, provai a piegare la vertigine bionda che si ergeva da dietro i capelli come una rondine impazzita e con una manata bagnata la abbattei con rigore. Chiusi la porta della mia stanza per contenere l’invasione dei pensieri tentacolari di mamma e mi immersi nel completo blu “Eredi Pisanò” che mi aveva comprato per il mio ingresso in società qualche mese prima: era la mia seconda occasione di sfoggiarlo, avevo appena compiuto sedici anni ed ero ancora l’unico tra la mia cerchia di amici che aveva i genitori separati, cosa di cui non mi resi mai conto grazie all’iperbolicità di entrambi, due fuoriclasse assoluti nei rispettivi campi. Fino a quel momento le mie gioie erano due, disegnare con i Caran D’ache e fotografare con la Polaroid. La Dana 120, regalo di mia madre, era un grande passo in avanti, ma mai avrei immaginato che una rapina in banca in pieno giorno si sarebbe frapposta tra quei due bastioni artistici regalandomi una masterclass indimenticabile di vita reale. Ritornai dalla pittrice fumante che rimase perplessa dalla mia tenuta regale.
“Dove vai così elegante? ”
“Vado a rapinare una banca con papà”.
“In pieno giorno? Mettiti i gemelli. Farai un figurone. Quando rapini una banca ci si da’ un tono.”
“Sì lo so. Li ho già messi. Guarda.”
Mia madre, che assecondava l’imperscrutabile e non indagava mai su nulla perchè si aspettava sempre da me un primo passo che puntuale non arrivava mai, si caricò dignitosamente l’ennesimo mistero sulle spalle e tornò al suo dipinto astratto scuotendo la bomboletta spray per troppo tempo. Io agguantai la Dana, qualche scatto a vuoto e la salutai. Se nella vita ho sviluppato un sesto senso lo devo proprio a quei momenti di maestose incomunicabilità elettive dei quali non ne rinnego uno.
Alle 10:30 scesi solerte senza aspettare il citofono, mio padre mi stava già aspettando di profilo nella sua Alfa coupé. Appena mi vide con la coda dell’occhio si levò gli occhiali da sole e li infilò in un’asola. “Bravo.” Chiosò raggiante quando entrai. Poi mise in moto e mi recitò il monologo di Antonio dal “Giulio Cesare” di Shakespeare. “Amici, romani, concittadini…Prestatemi orecchio…” Il bardo gli dava una forza ancestrale, lo caricava a molla, lo resucitava. Ripeté il monologo con devozione e in varie tonalità, finchè non posteggiammo vicino alla banca. Poi, come al suo solito, biascicò a mezzaria qualcosa di in una lingua sconosciuta e mi spiegò come stavano le cose, gli occhi trionfanti.
“Ascolta ciancicone. Però bello questo completo, bravo. E brava mamma… Lo ammetto. Antonella ha sempre avuto gusto. Dunque, a papà tuo tempo fa gli hanno spedito 3 milioni dal Brasile. I dindini non sono ancora arrivati ma ho tutti i documenti della spedizione. Apri il cruscotto, guarda. Ancora non lo puoi capire ma la banca sta giocando con i miei soldi, li trattiene e ci marcia. Ma adesso papino tuo se li riprende tutti. Ora. Insieme a te. E non ti mettere paura di ciò che vedrai, assecondami e basta. Ok?”
“OK”. E fu così che entrammo, io ignaro ed elegantissimo, con una macchina fotografica desueta al guinzaglio, lui un panzerdivision con gli spiriti di Giulio Cesare e Macbeth che gli srotolavano tappeti rossi mentre incedeva raggiante. Si tolse i Rayban e puntò l’impiegato che masticava una gomma americana.
LA RAPINA
“Buongiorno buon uomo, conto XYvattelapesca”. Intonò papà al tizio allo sportello. “Sono qui per la quarta volta e vorrei sapere se il bonifico da Rio de Janeiro partito un mese fa in gran spolvero da Copacabana è arrivato o si è perso in qualche Casinò di Montecarlo.”
“Buongiorno signor Steffen, certo! Controlliamo subito…Teffé. Mi Scusi. Qui: ecco… XYVATTELAPESCA. No, mi dispiace molto… vedo… cioè sono desolato ma non vedo nulla. Ma lei è sicuro che sono partiti?”
Mio padre socchiuse la bocca senza parlare, fece un primo movimento di labbra a tradimento senza emettere suono e bofonchiò qualcosa tra sé e sé alzando le sopracciglia e scuotendo la testa. Poi, con occhi malandrini e luccicanti, inarcò il suo metro e novanta sull’impiegato e sussurrò con l’aria più complice possibile “Ma lei è sicuro di non vedere nulla?” L’opaco cassiere sbiancò e rise infingardo.
“Cosa vuole dire dottore? No guardi, non è arrivato nulla. Può accadere… le assicuro. Ma la posso chiamare direttamente io quando arrivano in filiale. Non si deve preoccupare, possiamo monitorare.” “Amico mio…” Incalzò papà alzando lo guardo sopra la testa dell’impiegato mettendo a fuoco un punto più lontano della banca. “Sono venuto in questa filiale già 3 volte in questo mese, i mie soldi sono partiti quattro settimane fa e inizio ad avere un’età. Mi faccia parlare subito col direttore”.
“Ma Certo dottore, solo un attimo!” L’impiegato si allontanò verso il fondo della banca, parlò rimanendo sull’uscio di una porta aperta in lontananza e fece ceno di avvicinarci.
Quando entrammo nel grande ufficio del direttore del Banco di Roma, rimasi subito stupito per lo zelo scattante dell’omino in maglioncino blu che si inchinò di fronte a noi. “Che onore signor de Teffé , benvenuto… Cosa posso fare per lei? Questo è suo figlio immagino, molto piacere. Come si chiama? Bene, spero sarai anche tu un giorno nostro cliente. Come posso servirla dottore? Siamo qui per lei”.
“Vede direttore… un mese fa da Rio de Janeiro è partito un bonifico di 3 milioni diretto a questo conto. Ma ancora, per qualche motivo intellegibile, non è arrivato. Dove sarà secondo lei ?”
“Beh, signor de Teffè… Io, se le hanno detto così mi dispiace veramente, non so cosa potrei fare, … Sicuramente deve aspettare ancora un pochino. Deve portare pazienza. Ma è sicuro comunque che glieli hanno spediti?”
“Come le tasse in Cornovaglia. Ecco i documenti, direttore. Dopo mi può dare un ‘occhiatina anche sul suo terminale?”
“Certo, mi faccia controllare… Le tasse in Cornovaglia… He! He! He!… Voi attori… Mi faccia vedere… Sì effettivamente sono partiti. Mi ripete il suo conto? Verifico personalmente. XYVATTELAPESCA. Grazie, ecco, no. Ancora nulla… No… Guardi non è arrivato nulla. Io le consiglio, se i soldi sono stati spediti 4 settimane fa… di riparlare con la banca di Rio”.
I dialoghi gentili continuarono per qualche minuto ma dopo l’ennesimo diniego circostanziato del direttore in maglione, vidi la prima cosa che mi inquietò profondamente nella vita: mio padre corrugò la fronte e allungò il braccio sulla grande scrivania di mogano con studiata lentezza, mise la sua grande mano su un posacenere verde smeraldo e lo alzò in slow motion, inclinando il volto ad altezza bordo tavolo come per scrutare sotto l’oggetto. Poi, occhi a fessura, allungò progressivamente il collo verso l’ombra del posacenere per vedere meglio. Il direttore sbiancò in viso. La mia vertigine bionda si erse come le penne di un capo sioux prima della battaglia. “Cosa sto facendo signor Teffé? “ Domandò il direttore dissimulando un terrore in fieri.
Mio padre scosse la testa, senza guardarlo, rimanendo in posizione. “Sto controllando se magari i miei soldi sono sono sotto questo posacenere… Non si può mai dire, direttore. Ma no, sotto a questo posacenere vedo che non ci sono….no. Nzù, zù, zù. Mmmmm… Ma da qualche parte devono pure essere. Vero Manuel? Vediamo un po.'”
Il direttore emise dei risolini insipidi per esorcizzare la situazione, quando papà portò veloce l’indice alle labbra come a intimargli un silenzio foriero di una grande idea, “Sss…” E guizzò in piedi andando di falcata maggiore a scostare una grande stampa di Roma dall’altra parte dell ‘ufficio. “Vediamo se sono dietro questo Piranesi…Un grande il Piranesi! Immenso artista. Ecco… No… No… Non sono neanche dietro a questo quadro. Ma dove saranno finiti i mei soldi? Non bisogna mai disperare però… Continuiamo a cercare, Manuel.”
Il direttore mi guardò, io che non mi stavo affatto muovendo, abbassai gli occhi sulla Dana per poi voltarmi velocemente verso papà che stava squadrando l’ufficio da destra a sinistra, spettrale. L’omino in maglione blu timidamente preoccupato. “… Cosa sta facendo dottore, se posso chiederle?…”“Sto cercando i miei soldi, direttore. Da qualche parte devono pur essere!” Il direttore, che sino a quel momento non aveva staccato gli occhi dall’attore, fiutò il pericolo e sparì dietro il grande monitor Olivetti iniziando a battere sui tasti del computer, mani a tarantola impazzita.
“Ah! Magari sono sotto al tappeto!” Riprese mio padre con entusiasmo. “Sotto il tappetto…” Sussurrò fissando il persiano vicino la scrivania con il solito cambio tonale al quale ero abituato. Il rumore dei tasti del computer del direttore sempre più serrato. “Manuel mi dai una mano? Grazie piccolo Lord. Non sembra Little Lord Fontleroy mio figlio in questo Eredi Pisanò, direttore? Arrotola bene…Così… No… neanche sotto al persiano. Peccato. Grazie Manuel. Ma forse chissà direttore, forse sono sotto il divano… Nzù, zù, zù. Neppure qui. Che strano. Ma dove si saranno cacciati? Magari dietro? Può essere.”
Mentre Il direttre continuava a lavorare a non so cosa e io mi rialzavo per rimettere a posto il tappetto e ingannare il tempo, mio padre con sforzo erculeo prese un’estremità del grande divano di cuoio e iniziò a scostarlo dalla parete con tre forti strattoni.
“Ecco… No…non sono neanche qui. Dietro il divano nulla. Ma dove saranno, direttore? Nella libreria? In un volume della Treccani? Nel decimo? No. Nell’undicesimo? Neanche. Eureka! Il portaombrelli! Ma certo! E’ il luogo più sicuro dove mettere dei soldi, nessuno potrebbe mai immaginarlo. E se fossero lì, io ne sarei proprio felice direttore, perché è il luogo più improbabile e dunque adattissimo. Andiamo a vedere”.
Poi il capolavoro attoriale: papà, si mise in ginocchio vicino al protaombrelli, li scostò e ci mise dentro la testa come uno struzzo, senza muoversi più. “Manuel! Manuel!” La sua voce rimbombava nel cilindro di metallo, io non avevo più il coraggio di voltarmi, gli occhi bassi sulla scrivania del direttore che con una paresi di sorriso batteva i tasti ed emetteva strani suoni con la bocca per continuare a comunicare con noi in qualche modo.
“Hai per caso una torcia Manuel? Un fiammifero? Qui è tutto buio.” La mia macchina fotografica stava per esplodermi tra le mani, due lucciconi in agguato.
“Una pietra focaia! Non mi dire che non hai neanche una pietra focaia!”
Morii. Poi il colpo di scena.
“Signor de Teffé, ho trovato i suoi soldi!” Esclamò il direttore con un aureola rotante sulla testa e il viso livido e paonazzo. Mio padre estrasse elegantemente la testa dal portaombrelli, due solenni falcate e tornò al suo posto assumendo un aria genuinamente meravigliata, un altro capolavoro indimenticabile di espressione. “Davvero? Dov’erano?” “Erano… erano qui signor de Teffé… cioè, erano arrivati ma… per una procedura interna di smistamenti paralleli e reciprocità selettive avevamo discontinuato le congiunture estere di liquidità immediata e il suo bonifico era rimasto in stand by in un insterstizio di smistamento profilattico in fase di double ceck tra Honolulu e Miami per la green light.”
“Ah.” Emise papà compunto al punto giusto, corrugando la fronte per dare l’impressione di seguire meglio la spiegazione. Il direttore apprezzò e si sentì leggittimato a continuare la farsa.
“…Solo io con una password personale esecutiva ho potuto verificare la partenza del vostro danaro e rintracciarlo. Sono costernato. Comunque li abbiamo disimp… Li abbiamo trovati! Il bonifico è partito ma tecnicamente non è ancora arrivato, però la banca glieli può anticipare in misura del tutto eccezionale per l’affetto che nutriamo per lei come cliente premium e comunque a prescindere. Le erogo io stesso tutta la liquidità, mi segua signor de Teffé.”
Poco dopo il direttore infilò 3 milioni di lire in una busta color avorio e li porse a mio padre con le più sentite scuse del CDA del Banco di Roma e di tutti i direttori passati presenti e futuri. Mio padre accettò le scuse con umiltà e glissò andando a sfregare senza permesso il maglioncino blu del direttore per saggiarne la consistenza. Like a thunder. “Cashmere?” Domandò inseguendo un pensiero originale. “No. Ma sembra! Vero? E’ uno Schostal signor Steffen. L’ho preso la settimana scorsa, per essere più agile in ufficio.”“A quanto?” Domandò mio padre seriamente incuriosito. “Circa 500 mila lire signor Steffen. Ma ne è valsa la pena, vero?”“Bellissimo”. Lo leggettimò infine in quella mise inadatta gratificandolo a vita. Poi si salutarono come gradi amici.
DOPO LA RAPINA
Papà si fermò fuori la banca, imponente, sprimacciò la tasca del suo giubotto di daino rigonfia di banconote fresche e mi fissò senza espressione. Gli chiesi subito di posare per una foto: fece automaticamente qualche passo laterale, si tolse il giubotto, slacciò un bottone della camicia e ruotò sapientemente il busto di tre quarti tenendosi i polsi. “Shostal.” Lo sentii biascicare pregustandosi qualcosa di misterioso mentre io mi preparavo a scattare la mia prima foto in bianco e nero. 1/50 F5,7 e passò la paura.
Entrammo in macchina trionfanti, entrambi col sorriso stampato sulle labbra, papà si rimise i rayban, mi allungò un centone e mise in moto riprendendo il monologo di Antonio come se niente fosse. Al semaforo, sotto il ponte di Corso Francia, interruppe bruscamente Shakespeare e sfidò ancora una volta il mio Status Quo seguendo il filo di un pensiero nuovo. Mi guardò solenne, abbassò la mia vertigine selvaggia con una carezza paterna e pervaso da infinita dolcezza, quasi commosso, mi disse: “Shostal, Manuel.Domani romperemo i coglioni a Schostal.” Poi mi descrisse la strategia nei minimi dettagli. “Lo faremo insieme. Hanno prezzi fuori mercato e si danno arie di grandi negozianti. Sai cosa fa papà? Chiederò un maglione color prugna. Ovviamente non possono avere questo colore, Manuel… Ma io gli spieghero’ che in Brasile la prugna va per la maggiore e che a Rio è l’ultimo grido, così li metto in soggezione. Allora mi faranno vedere subito un maglioncino di tinta secondo loro vicino alla prugna. Dopodiché chiederò uno sconto. Mi daranno lo sconto. Ma poi decido di non comprare nulla perchè in realtà ripiegare su colori non alla moda per avere un risparmio della micragna è un lurido gesto da perdenti. Margini ridotti e senso di colpa. Are you in?”
“Come le tasse in Cornovaglia.”
Papà si inorgoglì sommessamente di una delle sue risposte evergreen in bocca al figlio, annuì appagato e diede di gas inseguendo altri pensieri, più veloce dei suoi stessi pensieri, imbastendo mentalmente lo show dell’indomani nel negozio Schostal di via Cola di Rienzo. A fine corsa, tra un pensiero a Strasberg e uno a Sun Tzu, gli scappò anche un sorprendente “Buon compleanno!”.
Like a thunder.
Manuel de Teffé
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Racconto di Manuel de Teffé pubblicato su “L’Italiano”