Rapina in banca con papà – La storia (vera) dell’attore che mise in crisi il sistema bancario.

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Antonio de Teffé in una foto di Manuel de Teffé


L’ORA PRIMA DELLA RAPINA 

“Let your plans be dark and impenetrable as night, and when you move, fall like a thunderbolt.” Esordì il papà attore in perfetta pronuncia british al telefono, poi il silenzio e il soffio delle sue narici sulla cornetta.

Quella mattina stavo ricurvo sulle  ginocchia e i miei sedicianni appena scartati, aprendo felicissimo una pellicola Ilford 400 iso in bianco e nero pronto a caricare la mia nuova Dana 120, quando mi arrivò la telefonata di mio padre che mi svoltò l’estate. Dopo il solito incipit da “l’Arte della guerra” di Sun Tzu che sostituiva da tempo i suoi buongiorno, continuò così: “Manuel, preparati, papà  passa a prenderti alle 10:30. Andiamo a rapinare una banca. Vestiti bene e niente ciuffi selvaggi.”  Poi  una pausa e l’attesa del suo respiro sulla cornetta che mi arrivava come il rantolo di un vento alieno sul deserto del Gobi. In un angolo del salotto mia madre stava dipingendo un quadro astratto con delle bombolette spray fumando una marlboro rossa, accanto a lei mio fratello piccolo si spupazzava beato Donkey Kong Junior su un mini Nintendo.

 Mio padre aspettò incuriosito una mia reazione che tardò a venire, perché per lo stordimento emotivo, nella mia mente  i termini “rapina” e “ciuffi” figliavano combinazioni caleidoscopiche di significati inutili che stavo vagliando con sospettosa flemma: rapinare ciuffi , pettinare banche, la rapina dei pettini, il ciuffo vendicatore… La banca?  Cosa vorrà esattamente dire papà? Diedi un sorso al mio lattefreddomacchiato e rimasi in ascolto ricurvo sulla macchina fotografica aperta, mentre il suo respiro scrutatore mi drammatizzava l’attimo soffiando dalle narici sui buchi della cornetta. Da una parte Darth Vader che sibilava oscuro dal  Fleming,  dall’altra parte della stanza una madre che intuiva tutto attraverso la nube di una marlboro rossa che si innalzava da dietro un quadro. Non sapevo cosa dire e mi sentivo sotto osservazione,  quel  rantolo di vento naricioso paterno sulla cornetta mi stava interpellando. L’iride di mamma velato di fumo  fece capolino dal perimetro ovest della tela. L’occhiata sincrona e cisposa di mio fratello incuriosito. L’ultimo pezzo di torta mimosa sul tavolo.

“Ti sei perso nei tuoi pensieri, vero? Ma adesso papino tuo ti stana e ti mostra come si piega il Banco di Roma. Oggi. Lo mettiamo insieme in ginocchio.  Noi due.  Sarai mio complice. Ci stai?”

“Ok.”  Vagheggiai atono per non destare l’attenzione di nessuno.

“Bene! Mi piace quando  mi dai la risposta giusta senza pensarci. Vestiti bene e niente maglioni ciancicati con le toppe.  Il mio ciancicone.”

“Va bene, papà.” 

“Let your plans be dark and impenetrable as night, and when you move, fall like a thunderbolt.” Ripeté assaporandosi la sua nuova massima preferita di Sun Tzu, stavolta in perfetto inglese americano,  sempre sotto il torchio del suo perfezionismo attoriale stile Strasberg. “Like a Thunder…”   

Attaccai il telefono e finii di caricare la macchina fotografica. Mia madre sicilianamente non mi fece nessuna domanda e io la fissai senza darle romanamente nessuna risposta. Ora, io di banche non ne avevo ancora  rapinate, ma detta da mio padre, la cosa aveva i suoi misteriosi margini di fattibilità. Corsi in bagno, provai a piegare la vertigine bionda che si ergeva da dietro i capelli come una rondine  impazzita e con una manata bagnata la abbattei con rigore.  Chiusi la porta della mia stanza per contenere l’invasione dei pensieri tentacolari di mamma e mi immersi nel completo blu “Eredi Pisanò” che  mi  aveva comprato per il mio ingresso in società qualche mese prima: era la mia seconda occasione di sfoggiarlo, avevo appena compiuto sedici anni ed ero ancora l’unico tra la mia cerchia di amici che aveva i genitori separati, cosa di cui non mi resi mai conto  grazie all’iperbolicità di entrambi, due fuoriclasse assoluti nei rispettivi campi. Fino a quel momento le mie gioie erano due, disegnare con i Caran D’ache e fotografare con la Polaroid. La Dana 120, regalo di mia madre, era un grande passo in avanti, ma mai avrei immaginato che una rapina in banca in pieno giorno si sarebbe frapposta tra quei due bastioni artistici regalandomi una masterclass indimenticabile di vita reale. Ritornai dalla pittrice fumante che rimase perplessa dalla mia tenuta regale.

“Dove vai così elegante? ” 

“Vado a rapinare una banca con papà”. 

“In pieno giorno?  Mettiti i gemelli. Farai un figurone. Quando rapini una banca ci  si da’ un tono.”

“Sì lo so. Li ho già messi. Guarda.”

Mia madre, che  assecondava l’imperscrutabile e non indagava mai su nulla perchè si aspettava sempre da me un primo passo che puntuale non arrivava mai, si caricò dignitosamente l’ennesimo mistero sulle spalle e tornò al suo dipinto astratto scuotendo la bomboletta spray per troppo tempo. Io agguantai la Dana, qualche scatto a vuoto e la salutai. Se nella vita ho sviluppato un sesto senso lo devo proprio a quei momenti di maestose incomunicabilità elettive dei quali non ne rinnego uno.

Alle 10:30 scesi solerte senza aspettare il citofono, mio padre mi stava già aspettando di profilo nella sua Alfa coupé.  Appena mi vide con la coda dell’occhio si levò gli occhiali da sole e  li infilò in un’asola.  “Bravo.” Chiosò raggiante quando entrai. Poi mise in moto e mi recitò il monologo di Antonio dal “Giulio Cesare” di Shakespeare. “Amici, romani, concittadini…Prestatemi orecchio…”  Il bardo gli dava una forza ancestrale, lo caricava  a molla, lo resucitava. Ripeté il monologo con devozione e in varie tonalità, finchè non posteggiammo vicino alla banca. Poi, come al suo solito, biascicò a mezzaria qualcosa di in una lingua sconosciuta e mi spiegò come stavano le cose, gli occhi  trionfanti.

“Ascolta ciancicone. Però bello questo completo, bravo. E brava mamma… Lo ammetto. Antonella ha sempre avuto gusto. Dunque, a papà tuo tempo fa gli hanno spedito 3 milioni dal Brasile. I dindini non sono ancora arrivati ma ho tutti i documenti della spedizione. Apri il cruscotto, guarda. Ancora non lo puoi capire ma la banca sta giocando con i miei soldi, li trattiene e ci marcia. Ma adesso papino tuo se li riprende tutti. Ora. Insieme a te. E non ti mettere paura di ciò che vedrai, assecondami e basta. Ok?”

“OK”. E fu così che entrammo, io ignaro ed elegantissimo, con una macchina fotografica desueta al guinzaglio,  lui  un panzerdivision con gli spiriti di Giulio Cesare e Macbeth che gli srotolavano tappeti rossi mentre incedeva raggiante. Si tolse i Rayban e puntò l’impiegato che masticava una gomma americana.

LA RAPINA 

“Buongiorno buon uomo, conto XYvattelapesca”.  Intonò papà al  tizio allo sportello. “Sono qui per la quarta volta  e vorrei sapere se il bonifico da Rio de Janeiro partito un mese fa in gran spolvero da Copacabana è arrivato o si è perso in qualche Casinò di Montecarlo.”

“Buongiorno signor Steffen, certo! Controlliamo subito…Teffé. Mi Scusi. Qui:  ecco… XYVATTELAPESCA. No, mi dispiace molto… vedo… cioè sono desolato ma non vedo nulla. Ma lei è sicuro che sono partiti?”  

Mio padre socchiuse la bocca senza parlare, fece un primo movimento di labbra a tradimento senza emettere suono e bofonchiò qualcosa tra sé e sé alzando le sopracciglia e scuotendo la testa. Poi, con occhi malandrini e luccicanti, inarcò il suo metro e novanta sull’impiegato e sussurrò con l’aria più complice possibile “Ma lei è sicuro di non vedere nulla?”  L’opaco cassiere sbiancò e rise infingardo.

“Cosa vuole dire dottore? No guardi, non è arrivato nulla. Può accadere… le assicuro. Ma la posso chiamare direttamente io quando arrivano in filiale. Non si deve preoccupare, possiamo monitorare.” “Amico mio…Incalzò papà alzando lo guardo sopra la testa dell’impiegato mettendo a fuoco un punto più lontano della banca. “Sono venuto in questa filiale già 3 volte in questo mese, i mie soldi sono partiti quattro settimane fa e inizio ad avere un’età. Mi faccia parlare subito col direttore”.

“Ma Certo dottore, solo un attimo!”   L’impiegato si allontanò verso il fondo della banca, parlò rimanendo sull’uscio di una porta aperta in lontananza e fece ceno di avvicinarci.

Quando entrammo nel grande ufficio del direttore del Banco di Roma, rimasi subito stupito per lo zelo scattante dell’omino in maglioncino blu che si inchinò di fronte a noi. “Che onore signor de Teffé , benvenuto… Cosa posso fare per lei? Questo è suo figlio immagino, molto piacere. Come si chiama?  Bene, spero sarai anche tu un giorno nostro cliente. Come posso servirla dottore? Siamo qui per lei”.

“Vede direttore… un mese fa da Rio de Janeiro è partito un bonifico di 3 milioni diretto a questo conto. Ma  ancora, per qualche motivo intellegibile, non è arrivato. Dove sarà secondo lei ?”

“Beh, signor de Teffè… Io, se le hanno detto così mi dispiace veramente, non so cosa potrei fare, … Sicuramente deve aspettare ancora un pochino. Deve portare pazienza. Ma è sicuro comunque che glieli hanno spediti?”

“Come le tasse in Cornovaglia. Ecco i documenti, direttore. Dopo mi può dare un ‘occhiatina anche sul suo terminale?”

“Certo, mi faccia controllare… Le tasse in Cornovaglia… He! He! He!… Voi attori… Mi faccia vedere… Sì effettivamente sono partiti. Mi ripete il suo conto? Verifico personalmente. XYVATTELAPESCA. Grazie, ecco, no. Ancora nulla… No… Guardi non è arrivato nulla. Io le consiglio, se i soldi sono stati spediti 4 settimane fa… di riparlare con la banca di Rio”.

I dialoghi gentili continuarono per qualche minuto ma dopo l’ennesimo diniego circostanziato del direttore in maglione, vidi la prima cosa che mi inquietò profondamente nella vita: mio padre  corrugò la fronte e  allungò il braccio sulla grande scrivania di mogano con studiata lentezza, mise la sua grande mano su un posacenere verde smeraldo e lo alzò in slow motion,  inclinando  il volto ad altezza bordo tavolo come per scrutare sotto l’oggetto. Poi, occhi a fessura,  allungò  progressivamente il collo verso l’ombra del  posacenere per vedere  meglio. Il direttore sbiancò in viso.  La mia vertigine bionda si erse come le penne di un capo sioux prima della battaglia. “Cosa sto facendo signor  Teffé? “ Domandò il direttore dissimulando un terrore in fieri.

Mio padre scosse la testa, senza guardarlo, rimanendo in posizione. “Sto controllando se magari  i miei soldi sono sono sotto questo posacenere… Non si può mai dire, direttore. Ma no,  sotto a questo posacenere vedo che non ci sono….no. Nzù, zù, zù.  Mmmmm… Ma da qualche parte devono pure essere. Vero Manuel? Vediamo un po.'” 

Il direttore emise dei risolini insipidi per esorcizzare la situazione, quando papà portò veloce l’indice alle labbra come a intimargli un silenzio foriero di una grande idea, “Sss…”  E guizzò in piedi andando di falcata maggiore a scostare una grande stampa di Roma dall’altra parte dell ‘ufficio. “Vediamo se sono dietro questo Piranesi…Un grande il Piranesi! Immenso artista. Ecco… No… No… Non sono neanche dietro a questo quadro. Ma dove saranno finiti i mei soldi? Non bisogna mai disperare però… Continuiamo a cercare, Manuel.”

Il direttore mi guardò, io che non mi stavo affatto muovendo, abbassai gli occhi sulla Dana per poi voltarmi velocemente verso papà che stava squadrando l’ufficio da destra a sinistra, spettrale. L’omino in maglione blu timidamente preoccupato. “… Cosa sta facendo dottore, se posso chiederle?…” “Sto cercando i miei soldi, direttore. Da qualche parte devono pur essere!” Il direttore, che sino a quel momento non aveva staccato gli occhi dall’attore, fiutò il pericolo e sparì dietro il grande monitor Olivetti iniziando a battere sui tasti del computer, mani a tarantola impazzita.

“Ah!  Magari sono sotto al tappeto!” Riprese mio padre con entusiasmo. “Sotto il tappetto…” Sussurrò  fissando il persiano vicino la scrivania con il solito cambio tonale al quale ero abituato. Il rumore dei tasti del computer del direttore sempre più serrato. “Manuel mi dai una mano?  Grazie piccolo Lord.  Non sembra Little Lord Fontleroy mio figlio in questo Eredi Pisanò, direttore? Arrotola bene…Così… No… neanche sotto al persiano. Peccato. Grazie Manuel. Ma forse chissà direttore, forse sono sotto il divano… Nzù, zù, zù. Neppure qui. Che strano. Ma dove si saranno cacciati? Magari dietro? Può essere.”

Mentre Il direttre continuava a lavorare a non so cosa e io mi rialzavo per rimettere a posto il tappetto e ingannare il tempo, mio padre con sforzo erculeo prese un’estremità del grande divano di cuoio e iniziò a scostarlo dalla parete con tre forti strattoni.

“Ecco… No…non sono neanche qui. Dietro il divano nulla. Ma dove saranno, direttore?  Nella libreria? In un volume della Treccani? Nel decimo? No. Nell’undicesimo? Neanche.  Eureka!  Il portaombrelli! Ma certo! E’ il luogo più sicuro dove mettere dei soldi, nessuno potrebbe mai immaginarlo. E se fossero lì, io ne sarei proprio felice direttore,  perché è il luogo più improbabile e dunque adattissimo. Andiamo a vedere”.   

Poi il capolavoro attoriale: papà, si mise in ginocchio vicino al protaombrelli, li scostò  e ci mise dentro la testa come uno struzzo, senza muoversi più. “Manuel! Manuel!”  La sua voce  rimbombava nel cilindro di metallo, io non avevo più il coraggio di voltarmi, gli occhi bassi sulla scrivania del direttore che con una paresi di sorriso batteva i tasti ed emetteva strani suoni con la bocca per continuare a comunicare con noi in qualche modo.

“Hai per caso una torcia Manuel? Un fiammifero? Qui è tutto buio.” La mia macchina fotografica stava per esplodermi tra le mani, due lucciconi in agguato.

“Una pietra focaia! Non mi dire che non hai neanche una pietra focaia!”

Morii. Poi il colpo di scena.

“Signor de Teffé, ho trovato i suoi soldi!” Esclamò  il direttore  con un aureola rotante sulla testa e il viso livido e paonazzo. Mio padre estrasse elegantemente la testa dal portaombrelli, due solenni falcate e tornò al suo posto assumendo un aria genuinamente meravigliata, un altro capolavoro indimenticabile di espressione. “Davvero? Dov’erano?”  “Erano… erano qui signor de Teffé… cioè, erano arrivati ma… per una procedura interna di smistamenti paralleli e reciprocità selettive avevamo discontinuato le congiunture estere di liquidità immediata e il suo bonifico era rimasto in stand by in un insterstizio di smistamento profilattico in fase di double ceck tra Honolulu e Miami per la green light.”

“Ah.” Emise papà compunto al punto giusto, corrugando la fronte per dare l’impressione di seguire meglio la spiegazione. Il direttore apprezzò e si sentì leggittimato a continuare la farsa.

“…Solo io con una password personale esecutiva ho potuto verificare la partenza del vostro danaro e rintracciarlo. Sono costernato. Comunque li abbiamo disimp… Li abbiamo trovati! Il bonifico è partito ma tecnicamente non è ancora arrivato, però la banca glieli può anticipare in misura del tutto eccezionale per l’affetto che nutriamo per lei come cliente premium e comunque a prescindere. Le erogo io stesso tutta la liquidità, mi segua signor  de Teffé.”   

Poco dopo il direttore infilò 3 milioni di lire in una busta color avorio e li porse a mio padre con le più sentite scuse del CDA del Banco di Roma e di tutti i direttori passati presenti e futuri. Mio padre accettò le scuse con umiltà e glissò andando a sfregare senza permesso il maglioncino blu del direttore per saggiarne la consistenza. Like a thunder. “Cashmere?” Domandò inseguendo un  pensiero originale. “No. Ma sembra! Vero? E’ uno Schostal signor Steffen. L’ho preso la settimana scorsa, per essere più agile in ufficio.” “A quanto?” Domandò mio padre seriamente incuriosito. “Circa 500 mila lire signor Steffen. Ma ne è valsa la pena, vero?” “Bellissimo”. Lo leggettimò infine in quella mise inadatta  gratificandolo a vita. Poi si salutarono come gradi amici.

DOPO LA RAPINA

Papà si fermò fuori la banca, imponente, sprimacciò la tasca del suo giubotto di daino rigonfia di banconote fresche e mi fissò senza espressione. Gli chiesi subito di posare per una foto: fece automaticamente qualche passo laterale, si tolse il giubotto, slacciò un bottone della camicia e ruotò sapientemente il busto di tre quarti tenendosi i polsi.  “Shostal.”  Lo sentii biascicare pregustandosi qualcosa di misterioso mentre io mi preparavo a scattare la mia prima foto in bianco e nero. 1/50 F5,7  e passò la paura.

Entrammo in macchina trionfanti, entrambi col sorriso stampato sulle labbra, papà si rimise i rayban, mi allungò un centone e mise in moto riprendendo il monologo di Antonio come se niente fosse.  Al semaforo, sotto il ponte di Corso Francia, interruppe bruscamente Shakespeare e sfidò ancora una volta il mio Status Quo seguendo il filo di un pensiero nuovo. Mi guardò solenne, abbassò la mia vertigine selvaggia con una carezza paterna e pervaso da infinita dolcezza, quasi commosso, mi disse: “Shostal, Manuel. Domani romperemo i coglioni a Schostal.” Poi mi descrisse la strategia nei minimi dettagli.  “Lo faremo insieme. Hanno prezzi fuori mercato e si danno arie di grandi negozianti. Sai cosa fa papà? Chiederò un maglione color prugna. Ovviamente non possono avere questo colore, Manuel… Ma io gli spieghero’ che in Brasile la prugna va per la maggiore e che a Rio è l’ultimo grido, così  li metto in soggezione. Allora mi faranno vedere subito un maglioncino di tinta secondo loro vicino alla prugna. Dopodiché chiederò uno sconto. Mi daranno lo sconto. Ma poi decido di non comprare nulla perchè in realtà ripiegare su colori non alla moda per avere un risparmio della micragna è un lurido gesto da perdenti.  Margini ridotti e senso di colpa. Are you in?”        

“Come le tasse in Cornovaglia.”  

Papà si inorgoglì sommessamente di una delle sue risposte evergreen in bocca al figlio, annuì appagato e diede di gas inseguendo altri pensieri, più veloce dei suoi stessi pensieri, imbastendo mentalmente lo show dell’indomani nel negozio Schostal di via Cola di Rienzo. A fine corsa, tra un pensiero a Strasberg e uno a Sun Tzu, gli scappò anche un sorprendente “Buon compleanno!”.

Like a thunder.

Manuel de Teffé

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Racconto di Manuel de Teffé pubblicato su “L’Italiano”

Rapina in banca con papà – pdf da “L’Italiano”