I would like to publicly thank Canon Deutschland CPS for letting me test the amazing Canon Eos 1D C. The camera is able to produce an extraordinary super cinematic 4k footage. After watching what this jewel is capable of, my conclusion is that 4k is the real HD. End of story. I especially would like to warmly thank Mrs. Melanie Albert and Mr. Martin Wieser for assisting me during this test trial. In case people find hard transcoding to ProRes 4k files, here’s what Andrew Reid from Eos HD found out: easy as pie: http://www.eoshd.com/2015/01/now-you-can-transcode-to-4k-prores-over-3x-faster-with-fcpx/
CRISTIADA – Italian release
FINALMENTE,
a diversi anni da uno dei lavori più duri e allucinanti della mia vita, esce nei cinema italiani “Cristiada”, meglio conosciuto negli USA e nel resto del mondo come “For greater Glory, film storico messicano, con Andy Garcia, Eva Longoria e Peter O’Toole. Lavoro duro perché, essendo io scrittore/sceneggiatore non ancora conosciuto come tale dall’industria, sapevo che dovevo calare un asso, e allucinante perché quando si tratta di studiare la “subject matter” di un paese che non è il tuo, devi arrivare a una proprietà narrativa talmente impeccabile che finisci con l’avere sogni lucidi a manetta, scorgendo accenti decisamente messicani anche negli scrosci di un pannolino che cambi a tua figlia.
Ma andiamo con ordine. Quattro anni or sono il produttore messicano Pablo José Barroso mi chiese dunque di scrivere un trattamento epico per un clamoroso film che aveva in mente: riportare alla luce una pagina di storia dimenticata del suo paese: “la guerra dei Cristeros”. Questo evento oscurato dai libri di storia gli aveva tolto il riposo e Pablo, decise un giorno di rinunciare ai suoi supplementi di melatonina, prendere in mano la produzione di un film assolutamente folle, e mandare a quel paese le avvizzite logiche produttive in voga.
Entusiasmato dalla missione impossibile affidatami, mi rinchiusi in Germania in una stanza e passai al setaccio tutti gli archivi online del TIME magazine dagli anni 1926 al 1929, lessi tutti i libri sull’argomento possibili, vidi tutto il materiale visivo disponibile, indossai infinite taglie di sombreri e cavalcai cavalli di vinti e vincitori. Dalla mia finestra scorgevo neve gelida e e visi teutonici inespressivi, ma in quella stanza avevo costruito un imponente Stargate sul Messico che oltrepassavo giornalmente per rivivere al galoppo 6 anni di furiosa storia messicana.
Per chi non ha dimestichezza col gergo cinematografico, ricordo che il “trattamento” è una mappa stellare della sceneggiatura, una versione della sceneggiatura senza dialoghi. Ne dovevo produrre uno grandioso, non potevo fallire. Scrivevo, disegnavo storyboard, giravo col sombrero per casa, imparavo espressioni messicane che molto si discostavano dallo spagnolo studiato, sceneggiavo e coreografavo scene di battaglia a cavallo inventandomi prospettive desuete e riprese virtuosamente assurde. Ancora non lo sapevo ma stavo progettando la GoPro.
Dopo 4 mesi, consegnai finalmente il lavoro a Barroso ( Non senza prima averlo fatto leggere al conte Alexander Stolberg, fine conoscitore della Settima Arte, e avuto da lui medesimo l’avvallo) e mi riposai per 3 mesi, aspettando scalpitante di ricevere lo screenplay dallo sceneggiatore americano. E’ Il cinema: una catena di montaggio dove ognuno ha un ruolo scolpito nella pietra. Dopo altri 4 mesi ricevetti la sceneggiatura finale, opera che si discostava un po’ dalla mia visione, ma ero comunque contento di aver dato il mio contributo a un film che reputo storicamente importante. Finalmente potei smontare il mio Stargate, che era divenuto davvero ingombrante per le dimensioni del mio studio, e misi in cantina sombreri, galoppate, storyboard e tequila non bevute.
In soldoni la storia è questa, e dal momento che non riesco ad essere politicamente corretto ve ne do adesso una versione “Ad usum delphini” ma brutale:
quando il governo messicano di vilissimo stampo autoritario limita fortemente le libertà religiose del proprio popolo deportando interi ordini religiosi etc. etc. parte della popolazione messicana scende nelle catacombe, un’altra cerca un infruttuoso dialogo intellettuale col governo illuminato, e una terza, più esasperata che mai, prende le armi per combattere il proprio governo. Guerra civile galore.
I libri di storia, subdolamente riscritti dai vincitori apparenti, levarono perciò anni di sonno al signor Pablo Barroso che, come accennavo, si tolse i supplementi di melatonina e decise di produrre un film per far vedere tutto ciò che era stato oculatamente nascosto. Quando a due anni dalle riprese, Pablo mi mostrò in un hotel fiorentino la prima versione del trailer di “Cristiada”, ancora senza correzione colore, ma molto molto potente, mi commossi. Ci commuovemmo. Rividi molte cose che avevo messo nel trattamento, non vidi molte cose che avevo messo nel trattamento. Ma questo è il cinema: un’eccezionale e impietosa catena di montaggio.
Tuttavia il film non era ancora finito: adesso Pablo doveva riuscire nell’opera più tremenda, quella più devastante: la distribuzione di un film storico di cui sulla carta non ce ne potrebbe importar di meno. E qui, come mi piace ripetere sempre: “La provvidenza ti intercetta a metà strada” (Vero Carola?)…Il film era fatto… e… insospettabili interessi verso l’opera cominciarono a smuovere le acque permettendone la distribuzione nelle americhe. “Cristiada” vanta del resto, la migliore interpretazione sullo schermo di Andy Garcia, talmente maestosa che facilitava notevolmente il compito della grande distribuzione.
Il mio contributo in “Cristiada” non era però ancora giunto al termine: misteriosamente operai anche nella distribuzione del film. Le impenetrabili terre di Francia e Italia si sfaldarono grazie ad alcuni miei amici che come Pablo, non digerivano l’assenza dai libri di storia dei medesimi accadimenti e, tutti desiderosi di far emergere una verità cruda ma storica, si caricarono sulle spalle l’onere di una distribuzione strategicamente improbabile.
Il mio audacissimo amico amico Hubert de Torcy lo ha distribuito l’anno scorso su territorio francese, mentre la mia spericolata amica Federica Picchi lo piazza adesso su territorio italiano con la sua Dominus Production, scinepattonando finalmente i bastioni del deserto cinematografico nostrano.
Come al “Milite ignoto”, una menzione d’onore la voglio far scattare a fine articolo anche verso “L’artista ignoto”: è il quarto amico, un amico che per 6 mesi ha passato giornalmente insieme a me quello Stargate personale che mi ero costruito sugli altopiani messicani.
E’ un amico compositore, mi scriveva i brani musicali per le scene che buttavo giù, per aiutarmi a dare un’anima migliore a ciò che scrivevo. Cercai di “imporlo” come autore della colonna sonora di “Cristiada”, ma logiche industriali ciclopiche tolsero all’ultimo momento a me la regia e a lui la colonna sonora.
Si chiama Gabriele Croci, è tra i 10 migliori compositori italiani (e ancora non costa molto perché non conosciuto)
Grazie a tutti ragazzi, per il vostro coraggio: grazie Pablo, grazie Hubert, grazie Gabriele e grazie a Federica Picchi, che in questo momento sfavilla tra una sala e l’altra con 12 prime da monitorare. Ci vediamo alla prima romana il 12 Dicembre alle ore 21, Cinema UCI, Porta di Roma.
I love you all,
Manuel de Teffé
Director/Writer
Il mio spot appena presentato alle Nazioni Unite
Prima di calarmi in un lungo silenzio artistico meditativo e rigenerante…lo scorso Luglio diressi questo spot per l’associazione tedesca Kinderreiche Familien, che fa funge da megafono per i diritti delle famiglie numerose tedesche. Qualche settimana fa lo spot è stato presentato alle Nazioni Unite durante una speciale sessione sulla famiglia. La camera usata è una Black Magic Cinema Camera (nome orrendo), che devo dire mi ha sorpreso per la sua pasta organica. Eccolo.
Manuel de Teffé
L’industria, poeticamente.
A great reminder. That’s pretty much it!
“Heute bin ich blond”: Marameo al cancro in 9 mosse.
Invitato al festival cinematografico di Brussels dal produttore esecutivo Franz Esterházy per la visione di “Heute bin ich blond” o “La ragazza dalle nove parrucche”, mi preparo a vedere il film con uno stato d’animo ostinatamente impreciso. Questa la storia scartavetrata e distillata: quando l’esuberante ventunenne Sophie (Lisa Tomaschewsky) scopre di avere il cancro, dopo lo shock iniziale decide di prendere a ceffoni il suo dramma con originale verve. Il coccolone viene esorcizzato così: la ragazza, calva da chemioterapia, inizia a indossare 9 variopinte parrucche cambiando con esse personalità. Un’accorato marameo al cancro che a un certo punto si darà alla macchia, ma non per le parrucche: trattasi ovviamente di miracolo. La storia è tratta da una vicenda realmente accaduta all’olandese Sophie van der Stap, ragazza che vari anni fa viene colpita dal male, apre un blog per raccontare la sua battaglia e sentirsi meno sola, Il blog viene letto, le pubblicano un libro, il libro viene letto, ne fanno un film per la regia di Marc Rothemund. Menzione speciale ai brillanti produttori tedeschi Sven Burgemeister e Andreas Bareiss, iniziatori dell’intero progetto. Durante il ricevimento serale, la mia curiosità di regista sceneggiatore mi porta a parlare a lungo con la scrittrice van der Stap, e noto con mia grande sorpresa l’estrema somiglianza caratteriale con l’attrice del film. Mi viene la sindrome della “Rosa Purpurea”, entro nuovamente nella pellicola e ho le allucinazioni. Quando poi arriva la bravissima Lisa Tomaschewsky, non capisco più dove finisca una e inizi l’altra. Questo, l’estratto conto del dialogo tra me e Sophie mentre alcune persone piangono ancora dopo la visione.
“Creatività al potere”: il miglior libro sull’industria cinematografica mai scritto.
Ogni libro è per me un ineffabile campo di battaglia: lo leggo con matita e risme di evidenziatori, lo riempio di post-it, umilio di orecchiette, lo chioso di una simbologia personale e altri folli codici crittografati di mia invenzione. Disegno 1 corona accanto a un concetto che mi garba, 2 corone se la trovata è notevole, 3 corone se la devo metabolizzare. Non sottolineo mai. Per questo, quando offerto, preferisco non prendere nessun libro in prestito, poiché non potendolo polverizzare secondo il “protocollo de Teffé”, sarei davvero incapace di leggerlo. Per questo (insert romantico estemporaneo), quando vidi quelle 3 corone gialle sul biglietto da visita di una bionda ragazza tedesca di Colonia, fu un inequivocabile invito a nozze.
Una menzione d’onore spetta ai libri del mestiere, i libri che esulano dal campo della narrativa ma narrano esperienze di uomini e donne che hanno abbracciato il nostro stesso campo di azione. Nel mio caso, lo spettacolo. Ai tempi dell’Accademia di Belle Arti, ricordo l’estremo squallore dei pomeriggi passati alla Feltrinelli al reparto cinetelevisivo. Di mese in mese cercavo tra i nuovi arrivi opere sul mestiere cinematografico che mi potessero illuminare e guidare, ma vi trovavo solo tomi insulsi e depistanti. I libri americani erano tecnici, belli, cristallini, “to the gist”; gli italiani menavano il can per l’aia analizzando le esperienze altrui con asfittica prosopopea semiotica.
Qualcosa aveva traviato lo spettacolo italiano che, snobbando il puro entertainment per assurgere a demiurgo della coscienza politica nazionale, non riusciva più a processare il sentimento semplice. I libri italiani sul cinema furono dunque per cinquant’anni una conseguenza di questo atteggiamento altezzoso, finendo con l’istillare nell’animo degli artisti nostrani un potente complesso di inferiorità nei confronti dell’intrattenimento per l’intrattenimento.
Fino all’arrivo di Amazon. Quando il colosso statunitense scese in campo, la mia sete di esperienze diede giri di pista alle frustrazioni accumulate nel tempo: comprati tutto. Dove tutto, significa tutto. Alla prima possibilità comprai 50 libri, da manuali di sceneggiatura, a quelli sulla direzione della fotografia, dalle tecniche di montaggio cinematografico a giganteschi manuali di produzione. La crema della crema della crema: ero troppo curioso di prendere parte alle vite artistiche dei miei colleghi oltreoceano. Mi arrivarono tre pacchi enormi e una telefonata. I pacchi enormi mi diedero noiosi problemi di dogana. La telefonata mi diede la morte civile per un mese.
“Pronto signor de Teffé? Buongiorno è la Visa. Abbiamo visto che qualcuno ha fatto a suo nome un’ordinazione di numerosi, troppi articoli su Amazon, cosa che in Italia non è mai accaduta. Abbiamo pensato di cautelarla bloccandole la carta.”
Mi inquietai a dovere con le basse sfere della Visa, ma in cuor mio fui felice di essere bloccato nelle mie logistiche, la morte civile dei trenta giorni che passarono fino al rilascio della nuova carta, mi consentì di andare all’assalto dei tre pacchi con spettacolare determinazione. Quest’ hobby si fortificò poi nel tempo fino a temprarmi nella presunzione di aver letto tutto, e nella triste consapevolezza che libri italiani di fattura simile a quella americana fossero pressoché inesistenti.
Fino all’arrivo di “Creatività al potere”.
Due settimane fa, leggendo “Creatività al potere” di Armando Fumagalli, docente di storia del cinema presso l’Università Cattolica, con mia somma gioia noto che:
1 Un italiano ha scritto il miglior libro esistente sul funzionamento dell’industria cinematografica.
2 Questo libro è una fucina di esperienze, psicologie, strategie e tattiche di mercato che nessun altro libro del genere esemplifica con simile autorevolezza.
3 “Creatività al potere”, se studiato bene, contiene i prodromi per la rinascita di un’intera industria italiana cinematografica.
E dal momento che in Italia ancora non abbiamo un’industria che si comporti da industria ma solo spavalde logiche ottuse autoreferenziali, qualsiasi persona abbia a che fare con i media o che desideri avere una radiografia perfetta dello stato delle cose nel campo cine-televisivo internazionale e peninsulare, dovrebbe leggere il libro.
Dopo aver dissertato su tutto, dove tutto significa ancora una volta tutto, Fumagalli ci spiega perchè dopo 100 anni di storia del cinema la più grande lezione sullo spettacolo provenga da una fabbrica di cartoni animati il cui unico vero Chief Executive Officer è la creatività: why Pixar docet and rules.
“Creatività al potere” di Armando Fumagalli, edito dalla Lindau: a mani basse, il miglior libro italiano sull’industria dello spettacolo. Visa permettendo, compratelo, regalatelo e APPLICATELO. Potere alla creatività.
Da oggi, il reparto Spettacolo della Feltrinelli ha più senso.
‘nuf said.
Manuel de Teffé
Rossella Falk e la giusta distanza.
Rossella Falk. Attrice. Roma 10 novembre 1926 – Roma 5 maggio 2013
Ieri, nella Chiesa degli artisti a piazza del Popolo, lo Sato maggiore del teatro italiano porgeva l’ultimo omaggio a Rossella Falk: Umberto Orsini, Gabriele Lavia, Carlo Giuffrè, Andrea Giordana, Gianfranco Jannuzzo, e tutte le persone più affezionate a Rossella insieme ai carissimi familiari. Io ero particolarmente commosso: è partita un’artista alla quale il mio inizio professionale è stato legato a doppio filo.
L’ansa del 5 Maggio recita così: È morta oggi a Roma Rossella Falk. Nata nella capitale 86 anni fa, attrice prediletta da Fellini e da Visconti, musa ispiratrice delle commedie di Giuseppe Patroni Griffi e di Diego Fabbri, compagna d’arte di Romolo Valli e Giorgo De Lullo, è stata una delle grandi signore del teatro, ricordata come «la Greta Garbo italiana».
Con Rossella iniziai a muovere i primi passi nel mondo dello spettaccolo al teatro Eliseo di Roma lavorando nel 1995 come suo assistente alla regia in “Anima Nera” di G. P. Griffi diretto dalla stessa Rossella, e nel 1996 in “Master Class con Maria Callas” di T. Mc Nally diretto da Patrick Guinand “diretto” a sua volta da Rossella. Catapultato dall’accademia di Belle Arti a teatro, ebbi la fortuna di poter cominciare a lavorare con una delle prime donne dello spettacolo italiano e un entourage indimenticabile. Per questa gavetta d’oro voglio ringraziare ancora Gianni Battista per la fiducia datami. L’aria artistica che respiravo era di altissimo livello e ricordo ogni giorno con una chiarezza e affetto estremi. I miei copioni straripavano imbastiture sceniche, il mio compito era di ricordarle tutte come una time machine.
Ricordo particolarmente la prima di “Master Class con Maria Callas” a Roma. La sera del debutto, durante il ricevimento a casa di Rossella, ricevetti in regalo una sciarpa di un colore mai visto: era il suo modo di ringraziare chi lavorava con lei, tutti ricevemmo un regalo. Passai numerosi inverni con la Falk attorno al collo senza incontrare nessuno con una sciarpa di quel colore, la qualcosa diede ineffabile valore aggiunto a quel regalo.
Per verificabilissime leggi prospettiche, quando qualcosa è troppo vicino ai tuoi occhi, non lo vedi. Si deve creare una certa distanza, l’oggetto si deve allontanare un po’ dal tuo sguardo perché tu possa apprezzarne interamente la presenza. La stessa cosa avviene con la triste dipartita dei nostri cari. Quella distanza abissale che si crea diventa la giusta distanza che ci permette di metterli improvvisamente a fuoco: l’extreme close up al quale eri abituato è presto assorbito da una figura che si fa intera e più comprensibile. Allo stesso modo, mi sembra di vedere meglio Rossella Falk adesso di quando lavoravo con lei all’Eliseo.
Mi avvicino a lei con gratitudine, prima che chiudano la porta e la macchina parta. Un’ultima preghiera con la mano accanto alla targa dorata col suo nome… “Rosa Falzacappa”… leggo con meraviglia…Oh Rosella! Ti chiamavi così, non sapevo.
Rosa,
grazie per quei due anni e per quei colori mai visti,
Con affetto, Manuel
Il dolly più veloce del mondo.
Bisognava costruire il dolly più veloce del mondo per seguire l’animale più veloce del mondo. Bisognava filmare un ghepardo in corsa parallela senza oscillazioni di focale o balbuzie stilistica, celebrandone fluidità muscolare e sovrannaturale supremazia di scatto. E per farlo bisognava costruire il dolly più lungo e veloce del mondo. Alla fine dello scorso anno, nello zoo di Cincinnati, con camera Phantom Flex a 1200 fotogrammi al secondo, Il regista Greg Wilson e Il team del National Geographic sono riusciti in una ripresa storica: hanno costruito il dolly più rapido e lungo del mondo firmando una pagina di sublime cinematografia. Durante i giorni di lavoro uno dei ghepardi usati durante le riprese ha anche stabilito con felina nonchalance il record assoluto di 100 metri in 5,95 secondi.
C’è un famoso detto Hollywoodiano applicato alla scrittura cinematografica…Fa più o meno così: “If the scene is about what the scene is about, you’re in deep shit.” Traslato e parafrasato chic: se riprendi un ghepardo che corre per riprendere un ghepardo che corre hai sbagliato tutto…Devi riprendere un ghepardo che corre per mostrare che dietro al ghepardo che corre non c’è nessun ghepardo.
Zen? No, è la storia dell’arte for dummies. Difatti l’arte dietro a questa “miracolosa” ripresa mi ha fatto pensare.
Ecco quello che ho visto dietro al ghepardo che corre.
Sappiamo con sicurezza che la strada più veloce da A e B è la linea retta. In teoria. In pratica arriviamo sempre a B dopo una serie di infinite gimkane. Gli obiettvi si spostano o si perdono di vista. Ecco allora che di fronte a un B molto importante, bisogna mettersi su dei binari inequivocabili per non cadere nelle spire di imprevisti o aspettare eserciti di Godot nel deserto dei tartari.
Non basta avere un buon obiettivo per raggiungere la meta. Ne correre velocemente. Il segreto è avanzare senza fare oscillare l’obiettivo. Perché con i sobbalzi gli obiettivi si logorano, il fuoco va a carte 48 e la visione è compromessa. Letteralmente. Per farlo l’unica strada è costruire un lunghissimo dolly che tenga fissi A con B , sul quale l’obiettivo possa slittare senza tentennamenti verticali e sbandamenti orizzontali. L’obiettivo, ripeto, non deve oscillare.
La meta diventa il percorso stesso che si fa con l’obiettivo in mano su un binario veloce inseguendo senza distogliere il fuoco da un cheetah.
Bisogna costruire il dolly più veloce del mondo.
La speranza è il miglior dolly esistente. Essa è legata alla meta, perchè ha in sé il DNA della meta. E’ la meta che si si fa percorso e ti tira in avanti. Su di essa gli obiettivi non conoscono sobbalzi.
La speranza è un salto quantico continuo, incontra promesse di meta su ogni punto del suo percorso e ti distrae dalla lunghezza del viaggio.
Bisogna cotruire il dolly più veloce del mondo.
Bisogna che anche quest’anno la speranza vada in guerra.
Buona Pasqua
Manuel de Teffé
MERITOCRAZIE BLINDATE e FADE IN ITALY: Come ci siamo smarcati dal ricambio generazionale e abbiamo assunto i meno efficienti.
l’italico leit motiv “In Italia non c’è meritocrazia” ci ha portato negli ultimi 20 anni a un cortocircuito dialettico surreale. Abbiamo comprato un concetto a scatola chiusa e lo abbiamo trasformato in mantra da salotto. Suonava estremamente fico. E quando qualcosa andava storto come non mai, “In Italia non c’è meritocrazia” è stata la nostra panacea, un assist dal subconscio al nostro alibi più grande. “In Italia non c’è meritocrazia”: la più insistente menatura del can della nostra storia, un ottuso “beating around the bush” su scala peninsulare, la tronfia matrigna di tutte le giustificazioni. Questo cappuccino fa schifo, IN ITALIA NON C’E’ MERITOCRAZIA. E affermandolo, ci siamo sentiti più grandi. La Crazia ci stordiva a tal punto da farci provare per anni compiacimenti oscuri quando rimasticavamo il concetto con sussiegosa rassegnazione davanti alla signora che si lamentava del figlio disoccupato.
Perchè Dire “Signora mia in Italia non c’è meritocrazia” è un “non sequitur” di proporzioni ipnotiche: in Italia ce ne sono mille di meritocrazie. Tutte blindatissime e stagnanti; è una meritocrazia così blindata che ha invitato per settant’anni i suoi figli a meritare altrove.
Adesso, se vogliamo sradicare un problema, dobbiamo individuare la causa del problema, non possiamo cristallizzarne dialetticamente l’effetto spacciandolo come problema. E il problema non è “in italia non cè meritocrazia”, quello è l’effetto, perchè la causa che storicamente ha generato la blindatura di tale meritocrazia è stata omessa. Vediamo dunque di ristabilire un’elementare cronologia tra causa ed effetto.
L’Italia è una SOCIETA’ FEUDALE AVANZATA. CAUSA. Società feudale perché ereditando storicamente la propria struttura dai feudi, ha trasferito a raggiera lo status quo di quella società chiusa su ogni punto del suo tessuto sociale, psicologico, culturale ed economico. Avanzata, perché abbiamo traslato questa mentalità anche su internet (difficilissimo avere ancora una risposta ad una email, si finge non siano arrivate). Diventati una nazione, uniti nel bene e nel male, abbiamo conservato una psicologia da bunker, sempre guardinghi se qualcuno tenta con noi un qualsiasi tipo di contatto professionale. Dopo il sisma delle due guerre mondiali, ci siamo nuovamente rinchiusi e divisi perfettamente, passando il tempo a marcare i nostri territori. L’illusione della televisione ci faceva sentire una nazione, ma la vocazione dal manager all’impiegato è stata sempre quella di difendere la posizione acquisita finché morte non ci separi: ogni postazione libera veniva poi rioccupata per partenogenesi o cooptazione. La ruota veniva dunque girata dagli stessi criceti, qualora svariati speedy gonzales si fossero messi in luce, la blindatura della meritocrazia del sistema neofeudale li avrebbe invitati subito a partecipare altrove i propri talenti.
Pezzo di carta, posto fisso e catenaccio divennero presto i capisaldi emblematici dell’immobilità nazionale.
La società italiana si affrancava così diabolicamente dalla realtà del ricambio generazionale, perno quintessenziale di ogni sana economia dirompente. I vecchi videro nei giovani i loro più acerrimi nemici, la figura americana dell’uomo mentore non decollò mai, e l’impenetrabile assetto neofeudale fece attecchire uno spontaneo sentimento di invidia nei confronti di chi avrebbe potuto meritare qualcosa di grande in relazione alle proprie capacità, nei confronti di chi iniziava ad avere le carte giuste per entrare in questo o quel feudo verso il quale lo indirizzavano automaticamente i propri talenti… Ma per entrare nel sistema non erano utili le qualità individuali; Il sistema aborriva la gente di talento, solo gli inefficienti avevano porte spalancate, poiché una volta entrati non avrebbero costituito minaccia alcuna per nessuno.
Estratto di un dialogo dalla “Grande Guerra” di Mario Monicelli :”Da questo momento silenzio assoluto: spegnere tutti i fuochi e le sigarette. Mandi un paio di uomini per portare un messaggio alla batteria i Pagliai, scelga i meno…insomma i meno efficienti.”
Per non morire della meritocrazia altrui, gli italiani cresciuti fuori dai vari feudi meritocratici, quelli efficienti ma senza le giuste conoscenze, iniziarono così a varcare i confini nazionali, dove si resero conto che per farcela non dovevano conoscere nessuno, perché la società era aperta e mobilissima. Per buttarla in caciara e drammatizzare la situazione, qualche giornalista bollò questo fenomeno come “Fuga dei cervelli”, un altro concetto ganzo e depistante per fare bella figura coi lettori, ma in realtà non fuggiva nessuno. Era il sistema feudale meritocratico autoreferenziale che non facendo entrare in circolo energie nuove le espelleva come fossero virus: la fuga di cervelli era semplicemente un’ emorragia di esseri umani.
Senza rendersene conto, l’Italia mandava al confino un’altra Italia che si riorganizzò in Sudamerica, negli USA, in Australia, in Germania. nacque così il nuovo italiano all’estero, che lontano dalla forza di gravità italiana come Superman da Kripton, scoprì attonito di avere superpoteri: tutto, ma proprio tutto era straordinariamente semplice lontano dalla madrepatria .
Individuato dunque il problema italiano nella società feudale e autoreferenziale impermeabile ai meriti esterni, vediamo cosa accadrebbe se domani mattina esplodesse LA MERITOCRAZIA.
Se l’Italia si trasformasse domani in repubblica meritocratica, non avendo ancora esorcizzato la causa numero uno che ne attanaglia lo sviluppo, accadrebbe qualcosa di paradossale. Perché una meritocrazia innestata a freddo in una società feudale porterebbe a un assurdo incancrenimento dello status quo, potrebbe anche dare adito a una sinistra dittatura dei meritevoli che, una volta arrivati meritoriamente alle proprie postazioni, non vedrebbero più alcun motivo per allontanarsene, per lasciare un giorno il posto generosamente a X. Esattamente come prima: meritocrazia a ricambio generazionale zero.
Questa è la storia vera di come il Made in Italy abbia lasciato il posto anno dopo anno al Fade in Italy.
In sintesi, abbiamo detto per vent’anni “in Italia non c’è meritocrazia ” perché abbiamo voluto fare bella figura e stare a posto con la nostra coscienza, senza sapere che non parlavamo del problema ma del suo effetto, un errore di valutazione che ci ha consegnato al disastro attuale chiavi in mano. In realtà il concetto preciso è: in Italia non c’è mai stato un ricambio generazionale spontaneo, e ciò è stato impedito da una società feudale dove tutto diventava casta intollerante verso un organico rinnovamento dall’esterno.
La chiave sta dunque nella sfeudalizzazione della nostra società mediante un ricambio generazionale sereno e spontaneo. Ma per innescare questo processo di sfeudalizzazione bisogna promuovere una nuova cultura che abbiamo scartato aprioristicamente, quella della generosità nel senso più ampio del termine, e le generosità è una delle caratteristiche dell’eccellenza.
Dedicato a tutti gli scardinatori culturali del sistema, in primis agli amici del Forum della meritocrazia, http://www.forumdellameritocrazia.it, che con la loro attività straordinaria stanno facendo un eccellente lavoro di gutta smantellando centimetro dopo centimetro la mentalità di una società blindata.
Tante gocce contro una Lapidem.
Questa, la mia gutta.
Manuel de Teffé
Director/Writer
“LA MIGLIORE OFFERTA”: IL CINEMA ALL’ENNESIMA POTENZA. Come Tornatore firma il suo “8 e mezzo” e riscrive la settima arte.
Non ricordo.
Non ricordo di aver mai visto nessun film che per intensità narrativa, follia drammaturgica e maestosità attoriale abbia innalzato così in alto la “Suspension of disbelief” da fare impallidire la storia del cinema in toto. Padrini, Cuculi, Kane e Straniamori hanno già accusato il colpo, spodestati in massa da un quadro caduto a terra, un boato che ripercorre e doppia tutta la storia dei colpi di scena di qualsiasi arte.
I capolavori del cinema di tutti i tempi si sono infatti appena resi conto, uno dopo l’altro, di non esser mai riusciti in realtà a osare un “twist in the plot” di simile caratura. Nessuno di loro ha scassinato l’animo umano andando a parlargli in modo così vertiginosamente intimo mettendo il dito nella piaga fino all’attaccatura della spalla. Nessuno è mai riuscito a escogitare un colpo di scena così organico e saturo di metafore da rimettere in riga tutte le più belle metafore che memoria umana ricordi.
Perché “La migliore offerta” di Giuseppe Tornatore è anche la migliore offerta del cinema italiano degli ultimi 30 anni, la più grande prova d’attore di Goffrey Rush, la maturità totale del regista siciliano. Un film che segna la “fine” della carriera di Tornatore come “8 e mezzo” segnò l’inizio e la fine di Fellini. Accade infatti che l’artista produce il suo capolavoro in stato di grazia e che il capolavoro plachi per sempre e inconsapevolmente l’artista il quale, da quel momento in poi, creerà sì film magistrali, ma senza mai poter riaccarezzare quel culmine, vetta che per una legge misteriosa e provvidenziale è dato umanamente di poter lambire una sola volta a ognuno di noi, come Carl Lewis vinse i quattro ori in una sola olimpiade e amen.
Samuel Taylor Coleridge, fine poeta inglese e famosissimo oppiomane, spiegò nel 1800 una volta e per tutte la differenza che passa tra prosa e poesia, e lo così fece spartanamente da mettere a tacere per sempre qualsiasi speculazione sul tema. Un giorno, probabilmente in stato di grazia e obnubilato dal fumo, disse con toni disarmanti che la prosa erano le parole nel loro miglior ordine, e la poesia le migliori parole nel loro miglior ordine. Concetto migliore non gli riuscì più. E qui, di poesia si tratta, perché a livello musicale, “La migliore offerta” di Giuseppe Tornatore sono esattamente gli ultimi 3 minuti dell’Estate di Vivaldi: le migliori note nel loro miglior ordine.
Per sbarazzarsi dell’atmosfera di un film simile, sempre ce ne si voglia sbarazzare, l’unico trucco da adottare sarebbe quello di rinchiudersi in una stanza e spararsi senza pietà tutti i film di Alvaro Vitali: solo l’opera omnia di Pierino a loop demenziale potrebbe scartavetrare infatti una simile memoria.
Ricordo molto bene la prima volta che conobbi Tornatore. Una mia ex fidanzata, assunta come comparsa ne “La leggenda del pianista sull’oceano”, mi invitò sul set durante la scena del ballo. Andai a farle visita a Cinecittà, conobbi Tornatore, gli strinsi la mano e gli feci velocemente i miei migliori auguri per il film. Come regista non ho mai amato dilungarmi con altri registi mentre stanno lavorando, perché la cosa disturberebbe anche me. Ciò che quel giorno mi rimase più impresso non fu il set in sé stesso né il dispiego disumano di energie tecniche, ma lo sguardo sereno e umile dell’uomo Tornatore. Serena umiltà che ho ritrovato anni dopo anche nello sguardo di un mio amico, che guarda caso è stato scelto proprio da Tornatore come operatore de “La migliore offerta”: Fabrizio Vicari. Visto il film chiamo Fabrizio il giorno dopo e lo butto giù dal letto all’alba.
M: Fabrizio ma ti rendi conto di cosa hai fatto?
F: Che cosa? Che è successo?
M: Hai girato un capolavoro, tutte inquadrature perfette, asciuttissime, non ne hai toppata una.
F: Ah, l’hai visto?
M: Si. Capolavoro assoluto.
F: Ma dai…Ti è piaciuto?
M: Capolavoro assoluto. Adesso puoi anche andare in pensione.
F: Ah, sono contento…Mi fa piacere. A volte i film che fai ti sono così davanti che non sai più…Ci vivi troppo dentro.
Sul film non voglio aggiungere nulla, qualsiasi altra parola spesa a riguardo sarebbe portatrice sana di spoiler.
Il punto sul quale l’opera mi ha fatto però riflettere è quella che io chiamo “Legge della compensazione”: ciò che fai o non fai ti ritorna sempre indietro a boomerang con interessi composti.
Per quanto riguarda la genesi di un capolavoro sono invece giunto a una conclusione. Non ho più dubbi: umiltà e vera arte vanno di pari passo.
L’opera presuntuosa gronda i “mamma guarda quanto sono bravo”, mentre l’artista umile si rende conto negli anni che l’arte, la sua arte per la quale ha combattuto e dato la vita, non è esattamente tutto, soffre terribilmente di questa realizzazione e cessa di tallonare il capolavoro. Forse è più appagante quella verità che affiora sulle labbra dei tuoi cari amici una sera a cena, lo sguardo imperioso di una figlia raggiante, la calma dopo tutte le tempeste. E in quel momento ridimensiona l’arte e abbraccia il suo lavoro con sublime serenità: ha scoperto a caro prezzo che la sua adorata pittura, scrittura e musica non sono altro che una seconda lingua donatagli per parlare meglio al mondo di cose fuori del mondo; quell’istante unico dove il divino trova uno spiraglio nell’ego dell’artista ed entra in punta di piedi nel suo lavoro guidando il pennello di Michelangelo, che affranto sotto la Sistina ha improvvisamente la sensazione, commosso e grato, di non essere più solo.
Un’ultima cosa: Tornatore, grazie. E ad maiora. Ma sì, ad maiora.
Manuel de Teffé



