
Ricordo un tempo in cui quando non eravamo d’accordo non accadeva nulla. Eravamo semplicemente in disaccordo, vivacemente in disaccordo, talmente profondamente in disaccordo da uscirne vivificati. E anche se alla fine scoprivamo che eravamo in disaccordo su tutti i punti di vista, non era quella la ragione per la quale decidevamo che non valeva la pena continuare ad incontrarsi.
Come se quel disaccordo fosse una ragione in più per una mutua e vivace esplorazione dei rispettivi punti di vista, benché ferocemente distanti.
Oggi invece si assiste al calo immediato di saracinesche mentali nel momento in cui si scopre che il nostro interlocutore ha un parere, forma mentis, diversa dalla nostra. Si prova un orrore istantaneo, un desiderio fulmineo di distanze siderali, e finiamo con l’escludere ogni possibilità di spiegazione.
Come siamo arrivati a tutto ciò? La mia teoria è che la colpa non sia del tutto la nostra. La mia teoria è che nell’era dei social gli algoritmi, mettendoci in comunicazione costante quasi solo ed esclusivamente con chi la pensa come noi, abbiano creato l’illusione che siano proprio tutti a pensarla come noi… e dunque il nostro punto di vista è stato talmente suffragato che nel momento in cui entriamo in contatto con chi non la pensa ugualmente anche sulla cosa più “innocua” di questo mondo, come questo o quell’altro film… scatta una surreale reazione tragicomica che sconfina in un’indignazione ottusamente violenta.
Ciò corrobora il politicamente corretto e si finisce per non parlare di nulla per il terrore di offenderci su qualsiasi cosa.
Ricordo gente con la quale ero in disaccordo su tutto e che alla fine di questo disaccordo non capitava assolutamente nulla. Litigi onesti, pieni di stile, quasi radiosi.
Buone discussioni in buona fede a tutti. Torniamo a “menasse”.
Manuel de Teffé